27 novembre 2008

L'India e Al Qaida

Il New York Times è tra i primi a sostenere che Al Qaida non sia implicato nell'attentato di Mumbai. O meglio: ritiene molto improbabile un suo coinvolgimento. Un attentato di quel tipo ha ripercussioni su tutta l'area; è una tragica abitudine per l'India (in altri casi la cifra delle vittime è stata anche più drammatica) ma l'onda di instabilità che questi eventi portano con sé preoccupa in modo particolare: per dove è stato compiuto l'attentato, per come è stato compiuto. Da chi esattamente?

26 novembre 2008

Inquietudini liberal

Addio alla Rubinomics con i protegé di Rubin. E' possibile? Le parole dicono di sì, i fatti non sappiamo. Obama si difende dalle critiche che gli piovono da "sinistra" dicendo che sarà lui, in persona, a garantire il cambiamento. Riporta Politico:

Obama referred to his team of advisers as "fresh thinking," adding that the “vision for change comes first and foremost…from me.” (...) “That's my job, is to provide a vision in terms of where we are going and to make sure, then, that my team is implementing it,” he said. “I think that when you ultimately look at what this advisory board looks like, you'll say this is a cross-section of opinion that in some ways reinforces conventional wisdom, in some ways breaks with orthodoxy in all sorts of ways.”


Una carrellata di dubbi, quelli che invece credono che sia "la corte a fare il re" (la battuta è di Vladimir Putin, ma era stata usata per Bush): Robert Borosage su Huffington Post; una rassegna di giudizi anche da Marco Polo, dove si esprime giusta preoccupazione su Christina Romer (la più a destra della nuova comitiva); David Corn su Mother Jones parla di Larry Summers.

24 novembre 2008

Agire subito, per il deficit si vedrà. Obama dice addio alla Rubinomics

Sembra proprio che il pareggio di bilancio sia scomparso dall'agenda. Che i democratici (ma c'è anche il governo laburista britannico, che ieri ha presentato una finanziaria di spesa e indebitamento) abbiano deciso che sia giunta l'ora di non pensare al deficit ereditato ma di spendere per rilanciare l'economia, adesso e prgettare il futuro. Ieri presentanto la sua squadra economica, una task force che lavorerà da oggi a un piano d'emergenza e di lungo periodo, Barack Obama sembra proprio aver detto questo. Il team sarà composto da Timothy Geithner, futuro Segretario del Tesoro della sua amministrazione, Larry Summers futuro direttore del Consiglio economico nazionale, Christina Romer, presidente del suo Consiglio economico e di Melody Barnes, direttore del Consiglio di politica interna. Quest'ultima carica non è direttamente economica, ma il fatto che Barnes sia nel team indica un'idea molto rooseveltiana. Nel complesso Ecco la conferenza stampa del futuro presidente dalla Msnbc. Obama ha avuto anche parole per l'industria dell'auto: che va salvata ma deve presentare idee su un futuro sostenibile (in senso ecologico).

La politica estera di Obama

Sarà molto pragmatica, per nulla innovativa e in continuità con gli ultimi due anni dell'ammini- strazione Bush (che erano già in discontinuità con quelli della follia neoconservatrice del primo mandato). Si tratterà di gestione attenta delle crisi, forse solo sull'Africa possiamo aspettarci qualcosa di diverso. Parentesi: la priorità sarà il lavoro e Wall Street. Salvare capra e cavoli, i propri elettori e i propri finanziatori, per essere brutali. Ci riuscirà? Dovrà buttare qualcuno dalla torre? Riconquisterà la fiducia del mondo verso l'economia americana o preferirà una buona dose di protezionismo? Potrà permettersela, visto il legame finanziario che lo lega alla Cina? Anche questa è politica estera..

Insomma, il primo obiettivo è che l'Afghanistan e l'Iraq non scoppino definitivamente; in Afghanistan ci saranno le elezioni politiche il prossimo anno. Per le elezioni del 2012 (alle quali Obama starà già pensando come qualsiasi presidente al primo mandato) anche l'Afghanistan deve apparire più tranquillo, ma per gli americani c'è anche il rischio di rimanere invischiati ancora di più. Insomma: gestione della crisi senza colpi di testa, ne' "umanitari", ne' di altro tipo. Vi aspettavate di più? Obama non è un pacifista. Molto utile l'analisi del New Yorker (fin troppo positiva, forse) a proposito della probabile scelta di Obama per il posto di National Security Adviser, il Generale James Jones. La lettura è istruttiva.

23 novembre 2008

L'economia e Obama. Il lavoro è il tema del primo mandato

Qui il video dell'intervento di Obama sulla crisi economica; qui la trascrizione completa del testo. I dati sono impressionanti: in ottobre minimo storico dell'acquisto di immobili negli ULTIMI 50 ANNI; 540 mila persone hanno dichiarato di aver perso il lavoro, il dato più alto dal 1990; i posti di lavoro persi nel 2008 sono 1 milone e 200 mila.

Sappiamo che Obama presenterà un piano contro la disoccupazione che, evidentemente, è il primo punto della sua agenda presidenziale (al netto, sempre, di drammatici e incalcolabili eventi). Si chiamerà Economic Recovery Plan e avrà come centro propulsivo, ovviamente, la Casa bianca. Il governo sceglie dei settori dove investire e favorire investimenti privati: infrastrutture, scuole, economia verde, automobili più moderne che non utilizzino il petrolio

We’ll put people back to work rebuilding our crumbling roads and bridges, modernizing schools that are failing our children, and building wind farms and solar panels; fuel-efficient cars and the alternative energy technologies that can free us from our dependence on foreign oil and keep our economy competitive in the years ahead.


Queste righe sono la sintesi di un piano di sviluppo economico ancora da svelare completamente, a quante pare almeno 300 miliardi di dollari subito (forse il doppio, e vanno comprese le riduzioni delle tasse per salari bassi e middle class). Certo, una bella differenza con la "ownership society" di Bush o altre idee liberali e liberiste dal sapore ormai naif. Obama dice che creerà 2 milioni e mezzo di posti di lavoro, ma noi italiani abbiamo pessimi ricordi in fatto di promesse del genere.

Ma insomma, dove va questo Obama? Nella discussione su Obama "che governerà dal centro" dobbiamo considerare: 1) il centro si è spostato a sinistra; 2) la Right Nation è ormai culturalmente minoritaria e consumata, e questo in economia conta. Obama è un pragmatico, uno piuttosto furbo e prudente. Per esempio, pare potrebbe non cancellare la legge di Bush sui tagli alle tasse (per i ricchi), lasciandola andare a conclusione nel 2011, quando scadranno. Così potrebbe fare un bel po' di compromessi con la base parlamentare repubblicana. Le domande ora sono: quanto è veramente ambizioso? per cosa vuole passare alla storia? Forse c'è ancora molto da aspettare, e i segnali vanno cercati anche in piccole notizie. Una su tutte: Obama ha promesso di creare un White House office per le politiche urbane. E' una novità da seguire con attenzione.

22 novembre 2008

Altre probabili nomine

Di Janet Napolitano, governatore dell'Arizona, alla Homeland security si dice da giorni. Scelta assennata, Napolitano ha gestito la frontiera più calda, è nuova, è donna, piace alle associazioni più grandi per i diritti dei migranti e alle reti nazionali di latinos (abbiamo ricevuto un paio di comunicati stampa questa mattina). Forse Bill Richardson andrà al commercio. Una scelta buona anche questa: il Segretario al commercio ha un ruolo cruciale in politica estera, tratta con i Paesi difficili - Cina, India, Brasile - sui temi attorno ai quali c'è tensione (con l'Asia il contrasto è commerciale, non geopolitico). Richardson è un diplomatico esperto, un grande mediatore ed è latino: un Nafta, più equo, per l'America latina tutta?
Quanto alla scelta più importante, quella che sembra fatta di Tim Geithner al Tesoro...boh. Il prescelto ricopre quel posto nello Stato di New York, ovvero è stato nell'occhio del ciclone in questi mesi. Garantisce una transizione senza scossoni. Ma che idee ha? Ecco un suo ritratto. Nei prossimi giorni o ore, cercheremo meglio.

Perché Hillary? Qualche risposta (e molte domande)

La discussione su Hillary Clinton va avanti da una settimana. Sembra di essere tornati ai giorni delle primarie. Chi la odia, chi la ama, chi non capisce. Noi siamo più o meno tra questi. Una spiegazione buona è quella della necessità di costruire un'amministrazione mostruosamente solida per provare a ridefinire l'America del XXI secolo. Una cattiva è che per farsi eleggere Obama ha fatto troppi accordi e oggi paga le cambiali. La verità sarà nel mezzo. Certo, senza Clinton e con un paio di suoi uomini al posto dela senatrice e di se stesso, il Senato sarà più facile da gestire. Nei giorni scorsi sono stati usati fiumi di inchiostro, vediamo i commenti di oggi. Cominciamo con le notizie dal Washington Post: il senso è, per la politica estera un'amministrazione centrista e pragmatica. Di solito in America, sono queste quelle che hanno funzionato. Di questi tempi pragmatismo dovrebbe essere dialogo, diplomazia, nuovi rapporti con le grandi potenze emergenti. Vedremo.
Ecco una spiegazione elogiativa da Time: c'è lo stile Lincoln dietro alla scelta. Addio alle divisioni, in tempi bui come questi. Non è d'accordo il Times di Londra, che come gli inglesi, è più cinico e ci ricorda che i Clinton non sono esattamente oggetti poco ingombranti. Averli nell'amministrazione farà ombra al presidente? Michael Tomasky del Guardian, evidentemente deluso, ci ricorda che uno dei temi principali di scontro tra Obama e Clinton fu proprio la politica estera. Il Washington Independent si chiede: chi piazzerà Hillary nei posti chiave? Costruirà una sua casamatta o lavorerà per l'amministrazione? Ecco un Tom Engelhardt sdegnato (da The Nation). John Nichols, dallo stesso sito esprime qualcosa di simile al nostro punto di vista: Clinton è esperta, capace, conosciuta e rispettata dai leaders del mondo, ma né lei, né Obama devono dimenticare chi ha avuto il mandato a governare e perché. E' Obama ad aver vinto, non Hillary e non John McCain.

A noi piaceva lui

Bill Richardson, governatore del New Mexico, era uno dei papabili per il Dipartimento di Stato. Dovrebbe finire al commercio. riguardatevi questi spot delle primarie democratiche (nelle quali era candidato): molto divertenti.

Come Prodi e D'Alema


Ok, un titolo così non si fa per scaramanzia. Però la politica americana è molto più gerarchica, e il presidente è veramente anche il capo del partito (vedi il post qui sotto). Debolezza o forza di Obama nella scelta di Hillary Clinton? Sono le solite domande che riguardano Obama: scaltrezza, pragmatismo o cosa? Più tardi un po' di rassegna sul tema.

21 novembre 2008

Il partito di Obama

Giorni fa la campagna di Obama ci aveva spedito - come a tutti gli iscritti alle loro newsletter, non è che siamo speciali - un messaggio chiedendoci: e ora che abbiamo costruito questa meravigliosa macchina, cosa ci facciamo? Già, cosa ne sarà della macchina elettorale di Obama? E' una nuova e avanzata combinazione di orizzontalità dovuta ad internet e profondità dovuta all'impegno di milioni di militanti sul terreno. E. J. Dionne cerca di mettere un po' d'ordine: o la fonde col partito democratico (ma molti militanti obamiani sono anti-partitici e anti-politici) oppure ne fa una struttura parallela che fa un crea un nuovo modo di fare politica. Questo nuovo modo può essere uno strumento plebiscitario di sostegno al Capo oppure una rete di partecipazione politica diffusa. Staremo a vedere, intanto nel nostro libro cominciamo a chiederci se, oltre a cambiare il Capo, gli Stati Uniti ci hanno anche fatto vedere la politica del 21esimo secolo. Voi che ne pensate?

20 novembre 2008

Forse serve la "Quarta Via"

Michael Lind una volta era conservatore, poi si è convertito e ora ci azzecca spesso anche se non sempre. Il suo lungo articolo su Prospect vale la pena di essere letto soprattutto dalla metà in poi. Lind non sembra valutare appieno la creazione di una nuova coalizione democratica, secondo lui si tratta sempre di un'alleanza tra ricchi bianchi istruiti e minoranze che taglia fuori la classe lavoratrice bianca. Non è così vero, come cercheremo di dimostrare nel nostro libro. La sua analisi però ha molto valore quando parla di elite democratiche: lui le vede come una combinazione tra i "New Democrats" della terza via Clintoniana e una "sinistra" fatta di movimenti su singoli temi: le minoranze, i neri, gli omosessuali, le femministe e gli ambientalisti. In politica economica i convertiti all'ideologia del mercato degli anni Novanta, secondo lui, non hanno gli strumenti per affrontare la crisi attuale mentre in politica estera dominano ancora i clintoniti fautori delle guerre umanitarie. Non è proprio così anche qui: c'è un consenso realista che è emerso e che potrebbe salvarci da questi personaggi. La vera sfida, come dice Lind, è nella capacità di Obama di emanciparsi da tutto ciò, proporre soluzioni ai problemi di oggi e ridisegnare il patto sociale americano. Insomma basta terza via, forse ne serve una quarta.
L'articolo lo consigliamo anche al nostro PD che, l'abbiamo sentito di persona qualche giorno fa, promette per uscire dalla crisi meno tasse e meno spesa pubblica. Auguri.

Come prendere la vittoria di Obama in Italia - consiglio ai navigatori

Lo avevate già visto? Non importa

19 novembre 2008

Ambiente, Paulson e Detroit. Di questo si discute

1. I democratici sono furiosi con il Segretario del Tesoro Paulson che non sta rispettando i patti. Incassati i 700 miliardi da spendere, Paulson si sta adoperando per salvare le banche (la sua lobby, quella da dove viene) e non sta rispondendo alle richieste di investire anche in salvataggio dei mutui, delle case automobilistiche. In più fa tutto con poca trasparenza. Quando tutto sarà finito - ovvero dopo il 20 gennaio - ne scopriremo delle belle, c'è da starne sicuri. Ecco la cronaca dell'audizione di Paulson in Congresso dal Washington Post.
2. L'amministrazione Bush sta provedendo a lasciare più guai possibili e a fare qualche altro danno. Di ieri la notizia di assunzioni di decine di dirigenti politici passati a posti di alto funzionariato. Da giorni si parla delle modifiche a una serie di normative ambientali per abbassare i limiti di inquinamento imposti dalla legge. Se le norme resteranno così sarà più facile aprire nuove miniere, trivellare, costruire strade nei parchi e, da ieri, anche inquinare l'aria. L'Epa, l'agenzia per l'ambiente di questo si sta occupando in questi giorni. Nonostantele proteste dei suoi funzionari locali. Ecco la cronaca del Post. Allo stesso tempo - e per fortuna - ieri Barack Obama, durante una conferenza con governatori di entrambi i partiti promossa da quello della California Schwarzenegger ha avvisato che l'ambiente resta la sua priorità. Crisi o non crisi. Dal Congresso, i repubblicani avvisano che faranno un'opposizione durissima a restrizioni eccessive.
3. Detroit: i capi dell'industria automobilistica Usa davanti al Congresso (sulla pagine del NYT anche i video dell'audizione) e la governatrice del disastrato Michigan chiedono che lo Stato presti 25 miliardi. Non sembrano essere riusciti a ottenerli in breve tempo. In molti sostengono che sarebbe una scelta sbagliata e che è meglio far fallire le big three (GM, Ford e Chrysler) per riaprirle e rilanciarle su basi nuove. Le opinioni sono bi partisan, l'ultima contro è di Mitt Romney, che dopo la sconfitta di McCain sta giocando molte carte per prendere la testa del suo partito (sta spendendo anche molto in Georgia per aiutare la corsa senatoriale ancora aperta). Qui il suo articolo: Fatele fallire, dal NYT.

Carriera finita per Ted Stevens. Democratici a quota 58 in Senato

Il nuovo conteggio dei voti in Alaska ha determinato la vittoria di Mark Begich, sindaco di Anchorage, Alaska, sul vecchio bandito Ted Steven. Appena condannato per corruzione, si era ripresentato e ce l'aveva quasi fatta. Stevens, ma ce ne sono altri, su entrambi i fronti, è quanto di più simile ci sia nella politica americana ai nostri re delle preferenze. Gente radicata su territori marginali, potente, corrotta e capace di far piovere soldi sul proprio collegio. Stavolta ha perso, era ora. Ecco il quadro di The Nation sulla maggioranza democratica al Senato. Con due seggi ancora in ballo (recount in Minnesota, dove l'ex comico Al Franken ce la potrebbe fare e nuovo voto in Georgia, dove quando un candidato non supera il 50% si va al secondo turno), teoricamente c'è la possibilità di superare i 60 voti e rendere la maggioranza a prova di filibuster (il nostro ostruzionismo). Molto improbabile, a dire il vero.

Ancora Clinton e poi un procuratore generale afroamericano

La notizia è che Hillary Clinton potrebbe decidere di non accettare il posto da Segretario di Stato. La senatrice di New York sembra propendere per l'idea di rimanere al suo posto e lavorare alla riforma della Sanità e di altre questioni interne. Così raccontano degli anonimi del Clinton camp a Politico (stessa frase la ripete il New York Times). Il leone dem, Ted Kennedy, è il presidente della commissione Sanità ed è tornato al lavoro. Ma quanto durerà ancora? E poi, lavorare agli esteri è un posto di grande onore ma non al centro della bufera. Almeno di qui a un paio d'anni, quando la crisi profonda nella quale gli Usa sono precipitati passerà. Oppure, come spiega Politico, l'idea è quella di mostrare che il posto non le interessa perché ha paura che non le venga dato. E poi ci sono i mal di pancia della campagna Obama: "Questa gente non ha lavorato 18 mesi per consegnare il governo ai Clinton" è una frase riportata da Politico.
L'altra notizia quasi certa è che Eric Holder jr. sarà l'attorney general, il ministro della Giustizia. Ha fatto il vice negli anni di Clinton, è afroamericano - sarebbe il primo - e considerato una figura di prestigio. Anche per lui, dicono dal transition team, le cose non sono fatte. Sia Clinton che Holder non erano i nomi che circolavano all'inizio. Continuiamo ad aspettarci sorprese.

18 novembre 2008

I temi del giorno (Hillary, McCain e GM)

1. Che presidenza sarà quella Obama? L'incontro con John McCain ci dice qualcosa. "Hanno parlato di come portare il cambiamento a Washington" hanno detto i collaboratori. Overo: McCain avrà una chance di tornare thre real McCain, lo scavezzacollo del suo partito, uno che pensa con la testa sua - continuando forse a litigare ferocemente con Obama sulla sicurezza e la guerra. Obama avrà spesso un voto influente in Senato e mostra, prima ancora di assumere la presidenza, di voler essere uno che unifica il Paese (prima Clinton, poi McCain). Entrambi hanno da guadagnarci, se poi il repubblicano, d'accordo con il presidente, introducesse nuovi strumenti di controllo e regole di funzionamento del Congresso, avrebbe da guadagnarci anche a democrazia americana.
2. Che fine farà Hillary Clinton? La stanno bruciando? Si dice che gli interessi del marito potrebbero portare alla perdita della poltrona da Segretario di Stato. Sarebbe un colpo, ma nessuno sa cosa si sono detti, che altre opzioni ci sono e che tipo di accordo c'è tra Obama e la senatrice. The Guardian sostiene che il posto è quasi suo.
3. Dove va General Motors? Il Congresso darà soldi anche all'industria dell'auto? Forse si, ma, come riporta il NYT, sia il management dell'ex gigante di Detroit che i sindacati si prenderanno parecchie bastonate. La dirigenza perché ha puntato tutto sui SUV con una miopia degna di Mr Magoo - ma a differenza del personaggio dei cartoni, che si salva sempre per caso, sta precipitando dal grattacielo nel quale lavora - i sindacati perché non hanno rinegoziato dei contratti eccessivamente buoni in tempi in cui il tracollo era alle porte: Chi è rimasto a GM, Ford e Chrysler guadagna di più e ha più garanzie di qualsiasi altro operaio americano, Toyota e Hyundai aprono fabbriche lontano da Detroit e ringraziano.
4. Qualche articolo da leggere per chi ha tempo: Noam Scheiber su The New Republic scrive dei pro e contro di aver fatto scelte inaspettate per alcuni posti chiave (Emmanuel è l'esempio chiave). A Obama piace chi lo contesta francamente, la cosa lo aiuterebbe a vagliare le scelte a fondo. Ma questi non sono anche la vecchia Washington? Richard Cohen sul Post spinge per una presidenza roosveltiana. Mentre EJ Dionne si chiede, su Tnr e Wp dova stia andando il Grand Old Party. Che sta facendo George W? Riscrivendo più regole possibili e facendolo in modo da rendere difficile ogni modifica. Ecco un commento del New Yorker.

17 novembre 2008

Grand Old Party, quanto è buia la notte?


In due anni hanno perso la Casa Bianca, il Senato, la Camera e molti governatori. E quel che è peggio, non sembrano avere un'idea di dove andare e perché. Il partito repubblicano si è riunito nel fine settimana per discutere. A parlare sono stati i governatori, l'unica cosa rimasta al partito. C'è chi ha negato i problemi, chi ha ripetuto che le cose non sarebbero potute andare altrimenti per colpa della crisi economica e dell'impopolarità di Bush. E poi c'è chi, come il governatore del Minnesota Tim Pawlenty che ha messo qualche po' di sale sulle ferite. La tesi del governatore è che oggi il GOP è un partito regionale: il Sud, compresi i grandi Texas e Arizona e qualche Stato spopolato del West. Poi il nulla. Senza competere nel Nord non abbiamo possibilità, ha detto. Pawlenty non chiede una svolta a destra ma di adeguare il partito ai cambiamenti del Paese, dare risposte concrete ai problemi e smetterla con la guerra di religione. Sarà interessante capire chi e come resisterà a questa ipotersi di modernizzazione. E sarà altrettanto interessante capire come, un partito che in alcuni Stati pesa ed esiste perché sostenuto dal peggio della destra razzista (a Sud) o dall'estremimo religioso riuscirà a fare a meno di quel sostegno e di quelle parole d'ordine. Ecco un riassunto della riunione da Politico e quella del New York Times. La prima mette l'accento sui riformisti, la seconda parla di partito diviso tra tradizionalisti - torniamo ai nostri valoti - e innovatori. Da Washington Times, quotidiano di destra, forse legato al reverendo Moon (ma potrei ricordare male), un'esclusiva su Eric Cantor futuro leader alla Camera dei repubblicani, che sostiene più o meno le idee del governatore del Minnesota e definisce "irrilevante" il suo partito, che, sostiene, non fa altro che enunciare principi senza fornire soluzioni. E' evidente che tutti pensano a David Cameron. Ma i tories non avevano un fardello ideologico culturale come quello del GOP, erano solo anti tasse e anti governo.

Le guerre di Obama/2

Ieri avevamo titolato al singolare, forse è il caso di titolare al plurale. Il candidato che si fece avanti nelle primarie ricordando ogni 5 minuti che lui si era opposto alla guerra in Iraq e Hillary no, è oggi di fronte ad una serie di temi sui quali se non ci sarà una guerra vera e propria comunque il confronto sarà duro. I vecchi inquilini (intellettuali) della Casa Bianca già ringhiano sull'Afghanistan: Danielle Pletka, l'antipatica vicepresidente del think tank di destra AEI, scrive su Forbes che bisogna esportare il modello iracheno dell'accordo coi capitribù anche a Kabul e che comunque Obama non ha gli attributi per vincere il conflitto. Un altro tema su cui la destra contesterà Obama, ma chissà con quale successo, sarà quello della "Freedom Agenda": e ora che abbiamo sostenuto tutti questi oppositori democratici nel mondo arabo che ci facciamo? Ecco la risposta di Jackson Diehl sul Washington Post. Nel frattempo è oramai di moda prefigurare un "grande accordo" tra Cina e USA per uscire dalla crisi. Oggi ne parla Niall Ferguson sempre sul Washington Post.
La questione più che altro sarà: di fronte a problemi nuovi e di inaudita portata, quanto cambierà il paradigma della politica estera americana? Noi crediamo in realtà non molto, ma il dibattito è aperto.

16 novembre 2008

La guerra di Obama?

E' capitato nel passato che un presidente uscente lasciasse in eredità al suo successore una guerra praticamente già iniziata nei fatti. L'intervento americano in Vietnam cominciò sotto Eisenhower ma ne raccolsero (volontariamente) i frutti avvelenati i democratici negli anni Sessanta. A settembre vi invitammo a volgere i vostri occhi al Pakistan dove George W. stava allargando il conflitto partendo dall'Afghanistan. Secondo il Washington Post ci sarebbe addirittura un accordo tacito col nuovo governo pakistano per portare avanti dei raid nella zona di frontiera ai quali Zardari si opporrebbe pubblicamente per poi annuire in privato. Ne avrebbe già parlato con Kerry, che se non farà il segretario di Stato perlomeno diventerà il presidente della potente commissione esteri del Senato. Il Center for American Progress, fucina di idee e uomini della nuova amministrazione democratica, è un po' che si occupa di Pakistan. Domani, per chi passasse di là, presenta il suo "comprehensive plan" per il paese. Come ha dimostrato documenti alla mano Douglas Little in "American Orientalism", spesso quando gli americani si occupano molto di un paese o poi finiscono per farci una guerra oppure quel paese si ribella e diventa cattivo, tanto per fare degli esempi: l'Iran e la Libia. Il Pakistan/Afghanistan potrebbero essere la "guerra di Obama", che lui lo voglia o no. A volte gli eventi sono delle palle di neve, che una volta che cominciano a rotolare non si fermano più.

15 novembre 2008

Hillary, Al e l'amministrazione corazzata

Sembra che Obama stia per imbarcare Hillary Clinton. Sembra che Al Gore sarà uno zar ambientale - e questo da qualche parte, qualche mese fa, dobbiamo averlo scritto. I nomi che si fanno non sono delle novità clamorose, ma sono di una forza impressionante dal punto di vista politico e della competenza. Obama avrà giganteschi problemi da affrontare, il presidente è lui e, per come funziona il sistema politico americano, è lui che comanda. Mandare un segnale di forza e unità dell'amministrazione e imbarcare tante competenze può essere un rischio politico, ma anche una grande trovata sia in termini simbolici che pratici. Se Hillary verrà usata per la politica estera come le fonti giornalistiche informate fanno supporre, potrebbe non essere una scelta fantastica. Michael Tomasky spiega molto bene perché: il rapporto con il presidente, che dovrebbe essere cristallino e non lo sarebbe, la scarsa capacità di Hillary di gestire il personale, che sembra essere cosa vitale al Dipartimento di Stato. Tomasky sostiene anche che la voce potrebbe essere esagerata dai clintoniani del transition team. Politico vede invece in Clinton un valore aggiunto: lascerebbe tempo a Obama per l'agenda interna e mostrerebbe il suo aspetto non conflittuale (imbarca la rivale). New York Times spiega che Clinton sa di non poter diventare capo della commissione Sanità del Senato fino a quando non morirà Ted Kennedy. Ecco sette buone domande su Clinton ministro degli Esteri da The New Republic. Se dovessimo scegliere noi, forse nomineremmo Bill Richardson, esperto, ispanico (ci sarà da lavorare con l'America Latina no?), grande mediatore e sostenitore a sorpresa di Obama.
Al Gore è popolare a sinistra, ha avuto idee - l'autostrada informatica era roba sua, non di Bill, e qualche cambiamento nella vita di tutti e ciascuno l'ha portato - sono anni che lavora su quello che sarà il tema dei temi per questa amministrazione. John Nichols di The Nation racconta che Joe Corzine, governatore del New Jersey ed ex senatore, potrebbe fare il Segretario al Tesoro, sarebbe qualificato e rappresenterebbe una rottura e una sorpresa sul terreno più delicato.
Sarà un'amministrazione clintoniana? Bah, è un'illusione dei soliti corrispondenti italiani che hanno ancora il cellulare di Podesta e sono felici dell'idea. Clinton, sarà bene ricordarlo, venne eletto con una piattaforma e cambiò sotto i colpi dell'assalto vincente repubblicano. Stavolta, non sembrano esserci i presupposti per una piccola rivoluzione conservatrice alla Gingrich. Serve però produrre risultati da day one.

13 novembre 2008

I democratici e la crisi

Questo post è una piccola antologia delle opere di Alessandro Coppola, nostro "corrispondente" da Baltimora e dai disastri sociali americani. Partiamo dalla geografia: Obama ha vinto anche nel Midwest e nella "cintura della ruggine" della deindustrializzazione. Si diceva che gli operai non avrebbero mai digerito un candidato nero e "intellettuale". Forse da questo viaggio nel Midwest si capisce perchè non è andata così. La sintesi del programma ufficiale del partito democratico (americano) è una cosa che va letta perchè da l'idea del cambiamento di paradigma che c'è stato soprattutto sui temi economici e sociali. Sembra che se ne stiano accorgendo anche i democratici nostrani, quelli dello "shock riformista" - sù, smettetela di ridere. Perchè da ridere non c'è proprio nulla, la situazione economica americana è proprio nera ma nel terzo articolo capiamo perchè la crisi dell'industria automobilistica potrebbe diventare un'opportunità gigantesca per una riconversione ecologica dell'economia.

12 novembre 2008

Plouffe al posto di Dean??

Howard Dean sta per lasciare la testa del Dnc, a chi il posto? Huffington e Mother Jones pensano al campaign manager della campagna Obama, David Plouffe. Magari con la faccia televisiva alla senatrice McCaskill, tra i primi sostenitori di Obama.

Nei panni del presidente

Ecco il giochino del Nyt, scegliete tra i nomi disponibili per gli incarichi chiave nell'amministrazione, scoprite chi vince e leggete le bio. Oddly enough, Richardson, ex candidato, sostenitore della seconda ora di Obama e grande esperto di diplomazia è in testa per la Segreteria di Stato. E se tutte le prvisioni dei pandits e i nomi che circolano fossero sbagliati (in effetti il Nyt, che qualche cosa saprà, mette nell'elenco gente non sentita). Un altro esempio interessante? Wesley Clark alla Difesa.

Il ritorno di Reagan e quello di McCain

Michael Reagan è il figlio di Ronald, ha una trasmissione radio e da ieri ha lanciato un sito, Reaganaction.com, dove delira del ritrono della Reagan era e chiede soldi. La lettera sul sito si apre con: L'America ha eletto il primo presidente socialista. La colpa è di Bush e dei repubblicani che hanno nominato John McCain. I democratici hanno condotto una campagna bugiarda, i moderati repubblicani (che Michael chiama liberal) che hanno provato a uccidere il partito, e così via. L'idea è quella di raccogliere fondi per una crociata conservatrice. Se è questo lo stato del G.O.P. prepariamoci a tanto odio e molte sconfitte (per lo stesso partito repubblicano). Lo scontro tra moderati e ala dura è aperto.
Dal canto suo, John McCain è sereno e felice che l'incubo sia finito. Ieri notte era al Jay Leno show, dove si è divertito, a parlato bene di Sarah Palin e dei governatori giovani (Bobby Jindal, indiano della Louisiana, Tim Pawlenty del Minnesota) ed escluso che tornerà a correre (è ora di una nuova generazione). McCain sembra aver capito, probabilmente è l'unico. Intanto sta già facendo campagna in Georgia, dove per il seggio al Senato si vota al secondo turno. Non avrebbe vinto comunque, ma se avesse fatto la sua campagna, il senatore dell'Arizona, si sarebbe divertito di più.

11 novembre 2008

Obama nel Grande Medio Oriente

Mentre RealClearWorld si interroga su chi potrebbe essere il prossimo segretario di Stato (in testa alla lista Kerry, Richardson e Holbrooke), nel Grande Medio Oriente (dal Marocco all'Afghanistan) cominciano a prendere le misure al nuovo presidente. Uno spassoso editoriale del quotidiano libanese Daily Star invita gli americani a non preoccuparsi più della regione: hanno già fatto abbastanza. Ora spetta forse ai soggetti regionali dimostrare che possono farcela da soli. Da ricordare che la pace di Oslo, nonostante quello che comunemente si crede, fu negoziata da israeliani e palestinesi senza l'apporto americano ma sfruttando il clima creato dai negoziati formali e inconcludenti di Madrid. Un'altra epoca però. Oggi la realtà è quella dell'Afghanistan, dove non è detto che il generale Petraeus riesca ad esportare il modello del surge attuato in Iraq: anche perchè come si vede da questo editorialino del Telegraph, gli inglesi non hanno molta intenzione di accolarsene il peso. A proposito di inglesi, il Guardian come al solito si pone la domanda giusta: quali nuovi spazi per politiche coraggiose (coraggioso è chi colpisce i più forti, non chi taglia ai più poveri, vero Uoltèr?) si aprono dopo la vittoria di Obama? Non solo in politica estera, il Guardian parla anche di crisi economica.

10 novembre 2008

Gli parla come se potesse capire.. proprio un brav'uomo

Diamo a Larry quel che è di Larry

In questo post avevamo segnalato la previsione del politologo americano Larry Sabato rispetto all'attribuzione di "grandi elettori" per i due candidati: ha sbagliato di uno solo (non aveva previsto la conquista di un "seggio" del Nebraska, dove l'attribuzione avviene in modo proporzionale. Finezze). A Larry Sabato il premio "America2008".

In realtà Sabato, in questa pagina del suo "Crystal Ball", ci tiene a riproporre un articolo che noi avevamo segnalato a luglio che testimonia l'accuratezza della sua analisi, non solo in termini di sondaggi, ma anche di comprensione del sommovimento sociale, culturale e demografico che attraversa gll Stati uniti oggi. L'articolo era firmato assieme ad Alan Abramowitz e Thomas Mann della Brookings Institution.

Dati elettorali/1 - i bianchi e le città

Da oggi pillole di dati di riepilogo: informazioni brevissime per tenere a mente cosa è accaduto in queste elezioni, e quindi ragionare sui margini di tenuta della coalizione democratica nel prossimo futuro.

Tra l'elettorato bianco delle città Obama ha preso il 9% di voti in più rispetto al Kerry del 2004, rendendo il blu dei centri urbani ancora più blu. In questa chiave si legge la vittoria in Nevada e Colorado, dove Las Vegas e Denver sono divenute la base elettorale del nuovo presidente. Lo stesso vale per la Pennsylvania: la strategia repubblicana di "infiltrarsi" in uno stato democratico ha avuto qualche esito nelle zone rurali, ma è stata resa vana dalle performance di Obama a Filadelfia. 82 milioni di americani vivono in aree urbane che superano i 100 mila abitanti, contro i 6o delle aree rurali; della suburbia parleremo più in là.

9 novembre 2008

Continuavano a chiamarli media

La Rai ha commentato con La Russa e Fassino la notte elettorale, Repubblica ha titolato l'America cambia pelle, Corriere e Repubblica hanno aperto il giornale e riempito pagine su due complotti due per uccidere Obama. Non vi bastava? Da stamattina (ieri per chi legge, ora non sarà più la) il sito di La Repubblica apre con il titolo: "al Qaeda minaccia gli Usa". La notizia parla di un nastro che sostiene che l'organizzazione terroristica sta preparando un attentato peggiore dell'11 settembre. Preoccupato - umanamente e professionalmente, oggi non ho lavorato - cerco di capire e cerco. Sul New York Times nulla, almeno non tra i titoli. Sul sito della Bbc una notizia c'é. E' abbastanza in disparte, ma c'è. Il titolo? Il messaggio morbido di al Qaeda. In sostanza c'è scritto che al Qaeda apre a una qualche forma di trattativa con un nastro. Poi parla di diversi siti islamisti e di toni diversi. La minaccia? Non c'è. Nemmeno su Cnn. Leggete pure, giudicate voi.

8 novembre 2008

Dopo la prima uscita

Sul sito del New Yorker un bel commento di George Packer: è ora che gli Obamas si mettano in testa che parlare con i media è bene, che controllare il messaggio nella maniera ossessiva in cui lo hanno fatto in questi mesi è male. Packer ha ragione, il livello di interlocuzione delle campagne presidenziali (e di quelle delle primarie) era basso: Biden ha tenuto una conferenza stampa, Palin nessuna. La stampa al seguito, affascinata dal candidato, era una legione di adoratori e gli altri non avevano granché accesso, specie dopo che la nomination è apparsa cosa fattibile. Chi scrive - che scrive per un giornale sfigato e straniero - ha avuto accesso a una sala stampa una volta sola. Conferenze stampa? Forget about it. Il problema non è il candidato ma il personale adorante. E' pericoloso, non fa bene al futuro presidente. Se la corte ti racconta che va tutto bene, non ti accorgi quando la luna di miele è finita.
Su The Nation, un'analisi di Nicolas Von Hoffman, la prima frase è, Obama distruggerà il partito democratico o questo distruggerà lui. Che vuol dire? Che i meccanismi di Washington triturano e che i giochi tra Congresso e Casa Bianca impediscono l'approvazione di riforme efficaci (spesso nelel leggi con un titolo x sono previste spese per titoli w, y, z). Von Hoffman suggerisce si andarci giù pesante e di usare la base che lo ha sostenuto come strumento contro il Congresso. Può essere un'opzione interessante, ma attenzione, la legione degli adoratori contro il Congresso è un rischio - salvo mettere in moto delle dinamiche organizzative diverse, tipo MoveOn, più staccate dalla campana stessa.

Tutti ne parlano: la lista dei 30 obamiani

Si parla di squadra e tornano le metafore calcistiche: mentre Obama si affida alle sapienti mani dello spregiu- dicato Emanuel (vedi il post di ieri), The New Republic pubblica la lista dei trenta obamiani che governeranno l'America. L'insediamento è lontano (il 20 gennaio) e i giornali politici si scateneranno come si scatenano quelli sportivi nella torrida estate per raccontare chi giocherà dove, in che ruolo, eventuali frizioni negli spogliatoi ecc. ecc. Interessante, tutto vero, aiuta a capire ma - come al solito - a parlare sarà il campo.

Interpretare la storia per fare la storia

La chiamano storia del presente, e con essa si cimenta Michael Lind, intellettuale della New America Foundation. L'America si nutre di miti e nel 2008 si confronta con quello della fenice, rinascendo nuovamente dalle ceneri. Mentre Harold Meyerson, ancora una volta, spiega con sintesi ed efficacia perché potremmo trovarci di fronte alla nascita di una coalizione democratica che potrebbe durare, Lind evoca cambiamenti ancora più epocali.

Invece di utilizzare una periodizzazione tipica degli scienziati politici - l'America avrebbe visto l'avvicendarsi di periodi di dominio elettorale di un partito sull'altro lunghi all'incirca trent'anni - Lind fa ricorso all'immagine delle "repubbliche" americane, alla francese. A Parigi sono alla quinta, l'America è all'alba della quarta. Si lega a due importanti studiosi americani, Bruce Ackerman e Ted Lowi, e intreccia fattori istituzionali con fattori economici e di sviluppo. La lettura è interessante, un assaggio - supponiamo - di un lavoro ben più articolato.

Il dubbio? Che questa storia del presente così attenta a parlare di una nuova era stia svolgendo anch'essa una funzione politica e simbolica: ricordarci che l'America rinasce per riconquistare di nuovo la leadership globale, a partire dal rinnovamento delle sue istituzioni e del suo tessuto produttivo.

La prima uscita: l'intervento pubblico non è più tabù

Barack Obama ha tenuto la sua prima conferenza stampa dopo la vittoria elettorale. Poco più di un quarto d'ora. Il messaggio è: ci stiamo occupando di voi. Ieri una nuova serie di dati sull'occupazione, le vendite di auto e i bilanci di big three (Gm, Ford e Chrysler) hanno gettato nel panico il Paese. Obama si è riunito con i suoi consiglieri economici ed è uscito ripetendo che serve un intervento immediato ("Se non vorranno approvarlo adesso, sarà la prima cosa che farò"). Sussidi, aiuto agli enti locali e ai piccoli imprenditori - una costituency che non è la sua, quella dei Joe the Plumber, almeno in teoria. I suoi lavorano a un piano generale, quello di lungo periodo.
Nessuna novità clamorosa, solo un tentativo di dire a Bush: se vuoi facciamo assieme, altrimenti faremo noi. Non ci saranno trattative vere, sembra di capire. La vulgata è cambiata, il presidente spiega che bisogna intervenire in economia. Non è il socialismo, è il ritorno del buon senso.
Obama era un po' teso e stanco. Non un grande performer. L'idea sembrava, fosse quella di rassicurare e di apparire presidenziale.

7 novembre 2008

Rahm Emanuel, chief of staff: uno di Chicago, uno di Clinton e non solo..

Questa scelta è il tipico esempio di estremo e spregiu- dicato pragmatismo obamiano: uno che va bene al partito, perché Emanuel è un leader del Congresso (anche se era considerato l’anti Howard Dean, il capo del Dnc); uno che va bene a buona parte dell’establishment di Washington, perché è un clintoniano già testato e un centrista di chiara fama (aiutò Clinton a sviluppare la proposta americana sul Nafta); è uno di casa, perché è di Chicago. Ci piace? Mica tanto, quasi per niente, ma è uno che porta a termine i compiti: qui un buon profilo da Politico (il senso è: Obama non scherza, ha preso un pitbull che conosce bene Washington). La sua presenza è segno di un accordo pre-elettorale con i clintoniani? no, probabilmente ha più a che fare con l'Illinois e la comune amicizia con Axelrod.

Emanuel ha dichiarato di appoggiare Obama subito dopo la fine della corsa con Hillary, il 4 giugno: ha avuto un ruolo importantissimo nell'introdurre Obama alla corte dell'Aipac, la potente lobby filo-israeliana di Washington. Sul quotidiano israeliano Haaretz si spiega che il padre di Emanuel era membro del gruppo terrorista israeliano di destra Irgun, mentre lui ha servito nell'esercito israeliano prima della Guerra nel golfo del 1991 e poi brevemente nel 1997.

Il gioco sembra questo: un capo clintoniano con intorno gli obamiani, come nel caso del transition team, la squadra che deve guidare la transizione tra le due amministrazioni. Il capo è il fondatore del think tank Center for American Progress, John Podesta, ex Chief of Staff di Clinton. Nel suo lavoro sarà accompagnato da due obamiani di ferro di scuola Chicago, Valerie Jarrett e Pete Rouse.

Obama cercherà di miscelare il suo staff tra chi ha tenuto nelle sue mani il partito democratico per 16 anni e i suoi, quelli del “Change”. Non sarà facile e creerà tensioni, anche se all’inizio al santo di Chicago verrà abbonato tutto. Aspettiamo di vedere cosa accadrà con la scelta del National Security Advisor e del Segretario al tesoro.

E poi dicono che sono decisivi i giovani


Questa foto ci arriva da un lettore di Vicenza, che ringraziamo sentitamente. Al centro un elettore centenario che si presenta baldanzoso al referendum sulla base americana Dal Molin, indispettito dalla presenza di aerei militari dentro casa sua. Richiama quest’altra foto che avevamo pubblicato il 4 notte, che ritrae un’elettrice di 105 anni della South Carolina (che non è quella della Georgia citata da Obama nel suo discorso del 4 notte, che ha invece 106 anni). Teniamoceli stretti.

Berlusconi e Obama

Di rimbalzo dal sito della Fondazione Daje la risposta di Obama alla dichiarazione di Berlusconi:

Mosca - Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si è detto stupito e irritato per il clamore suscitato nel mondo dai suoi giudizi su Barack Obama, definito “giovane, bello e abbronzato”. “Come al solito”, ha dichiarato Berlusconi, “la stampa di sinistra riporta le mie affermazioni in maniera distorta e soprattutto incompleta. Io avevo aggiunto che Obama ha il ritmo nel sangue”.

Da Chicago, lo staff di Obama getta acqua sul fuoco delle polemiche. “Anzi”, ha dichiarato il portavoce, “al presidente quel nanetto mafioso italiano che pensa solo a cantare e a correre dietro alla figa sta simpaticissimo”.

6 novembre 2008

Un racconto del D-day (visto che chi mi paga per stare qui non lo ha pubblicato)

Martino Mazzonis
Chicago - nostro inviato
Non erano passate le dieci, i seggi della California avevano chiuso da un minuto. Da un tendone chiuso alla stampa e al pubblico, dietro al palco allestito a Grant Park, si alzano delle grida di gioia. La gente più vicina le sente e capisce. E' come un'onda che si espande sul gigantesco prato dove la gente aspetta da ore e segue i risultati trasmessi dalla Cnn. Un 46enne che di nome fa Barack Hussein Obama è il 44esimo presidente degli Stati Uniti. Ha vinto le elezioni con almeno il 53 per cento dei voti, a vinto Stati dove il suo partito non vinceva da quarant'anni, ha portato più gente ai seggi che in qualsiasi altra elezione della storia statunitense.
L'atmosfera di Chicago era allegra da ore. I 70mila che avevano un biglietto e le altre decine di migliaia che stavano fuori non erano lì per seguire la notte elettorale in diretta. Erano arrivati da tutta l'America per fare festa. Man mano che i seggi chiudevano, seguendo il fuso orario del grande Paese, le certezze di chi ci credeva si facevano concrete. Prima la Pennsylvania, poi il New Hampshire, poi l'Iowa e l'Ohio, infine la Florida, la Virginia, l'Indiana, il Colorado, il Nevada e il New Mexico si tingevano di blu. Tranne la prima, tutti avevano votato Bush nel 2004. Alle due del mattino restavano tre Stati da assegnare.
"Yes we did" e "We want change" ha gridato la gente. L'abbiamo fatto. C'era più gioia che commozione a Grant Park. In tanti piangevano, più i bianchi che gli afroamericani, che si abbracciavano, sventolavano quello che avevano e ridevano. "Barack Obama è il presidente, Barack Obama è il presidente", urlava un giornalista radiofonico, come se dovesse convincersi anche lui che quella che stava dicendo era la realtà. Cinque ragazzi sui vent'anni si abbracciano e raccontano come la hanno vissuta loro, quelli che sono stati il motore della campagna, a cui è dedicato un video che scorre sugli schermi prima del discorso di quello che fino a gennaio è il solo senatore dell'Illinois. Il video parla dell'importanza della partecipazione e della necessità di costruire il cambiamento partecipando attivamente alla vita pubblica. "Potrò dire ai miei figli che c'ero, che l'ho votato, che l'ho scelto fin dall'inizio", spiega Jennie, che indossa una maglietta Barack's in the house, una delle centinaia, diverse tra loro, che gli afroamericani vendono come fosse pane a buon prezzo durante una carestia sui marciapiede della Michigan avenue, la grande arteria ornata di grattacieli dei primi novecento che scorre davanti al parco. Il suo amico, cappellino e occhiali spiega che lui è musulmano è che si sente felice, che da domani si sentirà più cittadino. Il terzo a parlare ha una aria messicana, e dice che la gente ha fatto politica, che questo è un movimento.
Alle dieci e venti circa è l'ora di McCain di concedere la vittoria all'avversario. Il senatore dell'Arizona smette i panni dell'estremista di desta indossati per conquistare il suo partito e torna ad essere quello che è: un sano conservatore moderato e, soprattutto, patriota. Dopo aver zittito qualcuno nella platea di Phoenix che fischiava il nuovo presidente, riconosce il miracolo fatto da Obama: "Che ha incluso nel processo democratico parti della popolazione convinte che non avrebbero mai avuto un peso nell'elezione del presidente. Immagino che significato abbia questa notte per gli afroamericani". Il risultato dimostra, secondo McCain, che l'America è lontana da quella razzista che quando Theodore Roosevelt invitò a cena il leader nero Booker T. Washington nel 1901 storse la bocca e protestò. Poi McCain ha parlato ai suoi: "Nessuno, dopo questa notte, metta in discussione il suo amore per il miglior Paese del mondo, chiedo a tutti quelli che mi hanno sostenuto di unirsi a me nel fare gli auguri a Obama e a lavorare per il bene del Paese". Nazionalista, ma sincero e signore.
A questo punto tutto è pronto. Cominciano le celebrazioni. Prima un reverendo conduce una preghiera, poi il giuramento alla bandiera, poi l'inno cantato da tutta la massa di gente. Queste tre cose non mancano mai in una cerimonia solenne che si rispetti. Poi, sul palco blu, con una fila di bandiere dietro, compare la famiglia presidenziale. Barack, Michelle, Malia e Sasha Obama sfilano, salutano in fretta. Moglie e bambine escono, il senatore eletto prende la parola. Non è bravo come al solito. Durante la campagna elettorale ha dimostrato una forza di volontà e un equilibrio superiori, ma stanotte le ginocchia tremano un po' anche a lui. E poi due giorni fa è morta la nonna che lo ha allevato, fatto crescere, studiare. E allora, nonostante l'ottimo discorso, la capacità di interpretarlo è un po' sotto la media.
Anche nel discorso, Obama ripete dell'importanza della partecipazione. E da una versione della grandezza dell'America nuova, coniuga le classiche formule patriottiche americane in un modo diverso. "Se c'è qualcuno che non crede che l'America sia il luogo dove ogni cosa è possibile, che si chiede sei i sogni dei padri fondatori siano ancora vivi, che discute la forza della nostra democrazia, stanotte ha avuto una risposta. L'hanno data le file di gente attorno alle scuole e agli ospedali, le attese di ore di gente che non aveva mai votato prima perché credeva che questi debbano essere tempi diversi, che la loro voce potesse fare la differenza - ha detto per prima cosa Obama - è la voce dei ricchi e dei poveri, democratici, repubblicani, neri, bianchi, latinos, asiatici, nativi, gay, etero, diversamente abili, vecchi e giovani". Dopo i ringraziamenti a collaboratori e staff, quello ai "lavoratori che hanno messo mano ai loro pochi risparmi per finanziare questa campagna, quei giovani che hanno rifiutato l'idea di essere una generazione apatica, a quegli anziani che sono usciti al freddo a fare porta a porta". Almeno per questa notte, Obama non dimentica il suo messaggio: il Change, il cambiamento si costruisce con la partecipazione di tutti. Per cambiare un "un paese che combatte due guerre, un pianeta in pericolo e fronteggiare una crisi economica senza precedenti" serviranno tutti. Per creare energia rinnovabile posti di lavoro, scuole migliori, serviranno tutti.
Il passaggio bello, forte, comovente è quello dedicato a Ann Nixon Cooper, 106enne di Atlanta che ieri ha votato per lui. Qui Obama ritrova la verve migliore e scandisce le frasi quasi come in un sermone. "Quando è nata non avrebbe potuto votare per due motivi: era donna e nera. Ha visto la disperazione della ciotola vuota e ha visto una nazione conquistarsi il New Deal, nuovo lavoro e un nuovo terreno comune. Yes we can. Ha visto bombe cadere a Pearl Harbor e tirannie minacciare il mondo ed è stata testimone del trionfo della democrazia. Yes we can. Era sugli autobus a Montgomery e sul ponte di Selma e ha ascoltato un pastore di Atlanta dire alla gente We shall overcome. Yes we can. Un uomo è sceso sulla luna, il mondo si è connesso grazie alla scienza e all'immaginazione e quest'anno ha votato toccando uno schermo perché dopo 106 anni sa che l'America può cambiare. Yes we can". Poi, Obama si è chiesto e ha ricordato agli americani che "resta ancora molto da fare. Chiediamoci, stasera, se i nostri figli dovessero vivere nel prossimo secolo, se le mie figlie fossero fortunate da vivere a lungo come Ann Nixon Cooper, che tipo di cambiamenti vedrebbero? Questo è il momento per rispondere a quella domanda, questo è il nostro tempo".
Difficile non festeggiare dopo aver sentito un discorso così. Per le strade d'America, da Washington a Chicago la gente è uscita in strada, Nella chiesa di Marthin Luther King ad Atlanta si è pregato. Sulla Michigan avenue bianchi e neri si abbracciavano e cantavano. Durerà poco? Forse sì. Obama deluderà? Possibile dopo aver creato tante speranze. Ma nella notte di Chicago, l'America che esce da otto anni bui, che ha violato la sua costituzione e la dignità umana, che ha combattuto guerre ed ha portato se stessa sull'orlo della catastrofe sembra aver trovato una strada. Non guarda al passato ma al futuro, non si chiude, si apre al mondo. Vuole essere prima della classe, certo, ma non essendo il bullo che picchia i bambini più piccoli. Obama sembra un maestro comprensivo e paziente, gli americani, almeno una parte di loro, degli scolari che forse hanno capito che devono cominciare a pensare con la loro testa.

Le news italiane e le elezioni americane

Se c'è una cosa sicura è che negli Stati Uniti non si segua molto quello che succede fuori. E' un dato di fatto che spesso il mondo viene spiegato dalla politica con una lettura legata agli obiettivi di politica estera. Parlando con la gente a Grant Park, una delle cose che saltava agli occhi (ho fatto diciamo 15 intervistine con una sola domanda: che significa per te change?) era il fatto che tra le cose che le persone chiedono c'è la voglia di rendere migliore l'immagine del Paese nel mondo, di aprirlo, di portarlo a vele spiegate a fare amicizia con gli altri. Ovvero, verrebbe da pensare, c'è un pezzo della società americana che comincia ad avere curiosità e voglia di stare con gli altri.
E noi? L'altra sera a commentare il voto, mi dicono, in Tv c'erano Vespa, Fassino, La Russa...C'mon ma che é??? Non solo, sul sito di la Repubblica, spero non lo abbiano stampato così, il titolo di apertura, per qualche ora era: L'America cambia pelle. L'AMERICA CAMBIA PELLE??? Io Tarzan, Tu Jane? Capire? Avere fame?

Fermandosi a riflettere un po'

Ieri sera una bella serata al Flexi, con gente "di tutte le età" come direbbe il TG2 e anche con tanti americani che vivono in Italia. Ecco alcune delle nostre riflessioni di ieri, sintetizzate in punti. Ci piacerebbe sapere che ne pensate.
1. Barack Obama è un fenomeno tipicamente americano. Perchè potrebbe esistere solo là e perchè tanto di quello che dice e che fa ha le sue radici nella storia delle idee americane. Chi vuole "importarlo" forse dovrebbe rifletterci.
2. Ha guardato alla società americana, ha capito che bisognava tradurre la sfiducia nella politica (o l'antipolitica) in politica. L'ha potuto fare grazie alla sua biografia che era credibile in questa operazione.
3. Guardando alla società ha capito su chi doveva puntare: i giovani che vedono il loro futuro a rischio, le donne, i neri, gli ispanici. Ha rafforzato il "centro" di questo blocco sociale, l'ha trasformato in un movimento e poi ha preso i voti anche dei bianchi e dei "moderati". E' il candidato democratico che prende più voti tra i bianchi dal 1976. Ha preso il 70% dei nuovi elettori (dai 7 ai 9 milioni) e i due terzi del voto degli under-30.
4. Ha creato un messaggio forte e credibile e ha lasciato che si espandesse "in orizzontale" sia attraverso la Rete che sul territorio. Nessun candidato democratico nella storia recente ha potuto contare su una presenza così capillare e in molti casi autorganizzata (la gente decideva da sola di fare campagna per lui e si organizzava senza contattare la sua campagna a volte)
5. Poteva contare su un partito che ha lavorato negli ultimi anni in tutti e 50 gli stati americani, anche quelli dove apparentemente non c'era speranza. E così ha vinto per esempio in Virginia, dove i democratici non avevano mai vinto dopo la desegregazione.
6. Anche per motivi anagrafici, ha potuto rappresentare un'America nuova. Non più ancorata alle divisioni create dalla destra negli anni Sessanta tra bianchi e neri, intellettuali e "gente comune", liberal e conservatori. Non era un candidato bipartisan, ma post-partisan.
7. Ha colmato il divario con la "gente comune" (uso un'espressione da TG2) che ha visto nella sua storia e nel suo modo di fare "da outsider" la propria storia. "E' uno di noi, magari più bravo, ma uno di noi" mi ha detto una mia studentessa americana. Quando è scoppiata la crisi economica, le persone si sono riconosciute nella "narrazione" magari un po' populista che lui ne faceva. "La libertà della destra vuol dire che di fronte ai problemi sei da solo" ha detto una volta in un comizio. E tanti americani si sono sentiti soli davanti al rischio. Il suo "movimento" è stata una risposta umana più che politica a questo problema.

Notizie del giorno

Qualche notizia. Tra qualche giorno semtteremo di fare queste pillole, si rischia di scadere nel gossip politico sull'America, un po'perverso.
1. Rahm Emanuel, ex leader della campagna democratica e consigliere politico di Bill Clinton ha avuto l'offerta di diventare Chief of staff della presidenza. Ebreo, eletto in Illinois e relativamente giovane (1959), Emanuel è un esperto dei meccanismi di Washington e conosce bene Obama. Non ha ancora accettato.
2. Forse Robert Kenendy jr potrebbe avere un posto al comando dell'Epa, l'agenzia di protezione dell'ambiente. Di mestiere fa l'avvocato ambientalista, viene da una famiglia di un qualche prestigio e potere e la cosa farebbe piacere a Ted e a Hillary Clinton.
3 Kathleen Sibelius e Janet Napoletano potrebbero avere un posto. Si tratta di capire se c'è qualcuno in grado di vincere il posto di governatore al loro posto.
4. La verità è che la campagna Obama non parla di nulla. Non si sa cosa stanno cercando e come. Di certo cercheranno di imbarcare figure prestigiose e capaci (l'equivalente di Rice e Powell, il contrario dell'ex attorney general Gonzales o del direttore della Fema ai tempi di Katrina). Figure troppo partigiane non entreranno a far parte dell'amministrazione e, si dice da settimane, Obama potrebe chiedere a Robert gates di rimanere in carica almeno per un po'. Da quando c'è lui, in Iraq le cose sono cambiate, si è parlato con l'Iran e si è firmato un accordo nucleare con la Corea del Nord.
5. C'è fretta di mettere insieme il governo. Bill Clinton ci mise mesi, si attirò critiche e la sua amministrazione pertì in ritardo. Non sono questi tempi che consentono a Obama di prendersela comoda. Tanto più dopo il successo che ha avuto e le promesse che ha fatto. Tutti, ma proprio tutti i commentatori televisivi di destra, centro e sinistra sono stupefatti delle scene viste ieri notte in tutta l'America. E siccome sono patriottici e orgogliosi, le scene di giubilo e partecipazione sono piaciute a tutti.
6. I leader neri storici afroamericani hanno cambiato modo di fare. Un po' sarà opportunismo, un po' si sentono fortunati ad aver visto una cosa del genere. Le lacrime di Jesse Jackson sembrano davvero sincere.
7. E' cominciata la caccia a McCain e Palin. Stanno emergendo i distinguo ed escono le notizie sui litigi. I moderati incolpano Palin, i falchi McCain. Saranno mesi di macelleria interna nel partito repubblicano. Chi comanda? Che idee ci sono, verso dove si va?

5 novembre 2008

Adesso viene il difficile: rassegna stampa

Questo è il titolo di un commento del New York Times. E.J. Dionne dice, "e adesso evitiamo di rincorrere il centro". Dionne non è un liberal ed è cattolico, non è The Nation. Politico sostiene che la rivoluzione al potere è più forte dell'enorme porata simbolica che comporta. Joe Klein, di Time, riparte dalle primarie e dal significato della campagna e della partecipazione. John Nichols, di The Nation, sostiene, corretamente, che Obama ha un mandato pieno e una maggioranza chiara.
Chissà se in Italia questi imbecilli la smetteranno di sostenere che siamo un Paese di centrodestra e cominceranno a cercare qualche idea nelle loro teste vuote, invece di ripetere slogan e perseguire politiche mediocri, conservatrici e di centro. Se lo facessero, non c'è da fidarsi, starebbero imitando di nuovo l'America.

Il video del discorso

Dal Guardian America

Aggiornamento del mattino: i risultati

Missouri e North Carolina sono ancora too close to call, troppo vicini per poter dichiarare un vincitore. In Missouri è avanti The Mac per qualche 6mila voti, in North Carolina Obama per 11mila. Vedremo. Se il Missouri finisse al repubblicano, queste elezioni sarebbero speciali anche per questo: lo Stato ha sempre votato il presidente eletto. Se Obama prende la N.C. sarebbe clamoroso, due Stati del Sud finiscono nelle mani dei democratici (il seggio al Senato dello Stato lo hanno vinto loro, dopo uno spot vergognoso della repubblicana).
In termini di voti, Obama ha preso sette milioni di voti in più. Non ho il tempo di guardare i dati, ma credo che sia un risultato di quelli pesanti. In termini percentuali siamo 52 a 46, con il 2% sparso tra quel genio di Ralph Nader, il libertario Barr e frattaglie varie (oppure non contano ancora i due Stati non assegnati, non so). L'Ohio è il dato più clamoroso: mentre in Indiana, Florida e Virginia, i due candidati sono molto vicini, lo Stato di Joe the Plumber ha votato molto Obama. I blue collars tornano a casa, metteteci anche i dati di Michigan, Pennsylvania, Indiana e scoprirete che, forse, i Reagan democrats sono un fenomeno del passato.

Yes we did, il risveglio


Chi ha vinto cosa? Dove sono? E come mi chiamo? Visto che qualcuno mi ha confuso con il Panda roscio qui sotto, sono costretto all'esibizionismo.
Due notiziole: Al Franken, il comico candidato senatore democratico in Minnesota, non concede la vittoria, è indietro di pochi voti e si potrebbe arrivare a uno scontro procedurale.
Probabilmente Obama oggi non si farà vedere: se io sono stanco così, non posso immaginare lui.
Il discorso lo avranno tradotto tutti e meglio di così, ma ecco un bel passaggio, tradotto e/o sintetizzato: il Change, il cambiamento si costruisce con la partecipazione di tutti. Per cambiare un serviranno tutti. Per creare energia rinnovabile posti di lavoro, scuole migliori, serviranno tutti.
Il passaggio bello, forte, comovente è quello dedicato a Ann Nixon Cooper, 106enne di Atlanta che ieri ha votato per lui. Qui Obama ritrova la verve migliore e scandisce le frasi quasi come in un sermone. "Quando è nata non avrebbe potuto votare per due motivi: era donna e nera. Ha visto la disperazione della ciotola vuota e ha visto una nazione conquistarsi il New Deal, nuovo lavoro e un nuovo terreno comune. Yes we can. Ha visto bombe cadere a Pearl Harbor e tirannie minacciare il mondo ed è stata testimone del trionfo della democrazia. Yes we can. Era sugli autobus a Montgomery e sul ponte di Selma e ha ascoltato un pastore di Atlanta dire alla gente We shall overcome. Yes we can. Un uomo è sceso sulla luna, il mondo si è connesso grazie alla scienza e all'immaginazione e quest'anno ha votato toccando uno schermo perché dopo 106 anni sa che l'America può cambiare. Yes we can". Poi, Obama si è chiesto e ha ricordato agli americani che "resta ancora molto da fare. Chiediamoci, stasera, se i nostri figli dovessero vivere nel prossimo secolo, se le mie figlie fossero fortunate da vivere a lungo come Ann Nixon Cooper, che tipo di cambiamenti vedrebbero? Questo è il momento per rispondere a quella domanda, questo è il nostro tempo".

I dati non sono ancora definitivi

Ci sono ancora stati che devono essere assegnati; in Missouri e North Carolina il distacco è troppo esiguo e i dati non sono definitivi. Nel frattempo, raccoglieremo i dati dei network e delle società demoscopiche per farci un'idea di chi ha votato Obama. La Cnn ieri sera proponeva un primo dato interessante: i neri avrebbero votato, più o meno, nella stessa percentuale del 2004. Adesso va osservato il dato del voto giovanile, quello della minoranza ispanica (soprattutto in stati come il Colorado e il New Mexico) e va analizzato con attenzione - ma per quello veramente ci vorrà tempo - il voto degli swing states come l'Ohio. Proveremo a fare delle ipotesi - che verranno confermate o confutate nel prossimo futuro - per capire se l'identikit dell'elettore democratico offre indizi sul potenziale della nuova coalizione democratica.

Intanto guardate con attenzione gli exit polls (divisi per razza, età, educazione..) del New York Times.

Alla fine sarà così: 9 stati sottratti ai repubblicani (quelli in rosso)

Vermont, Pennsylvania, Illinois, New Jersey, Massachusetts, Maryland, Connecticut, New Hampshire, Maine, Delaware, DC, New York, Michigan, Wisconsin, Rhode Island, Minnesota, Iowa, Ohio, New Mexico, Virginia, California, Oregon, Washington, Hawaii, Colorado, Florida, Nevada, Indiana, North Carolina

Il commento finale - da "The Onion "

WASHINGTON—African-American man Barack Obama, 47, was given the least-desirable job in the entire country Tuesday when he was elected president of the United States of America. In his new high-stress, low-reward position, Obama will be charged with such tasks as completely overhauling the nation's broken-down economy, repairing the crumbling infrastructure, and generally having to please more than 300 million Americans and cater to their every whim on a daily basis. As part of his duties, the black man will have to spend four to eight years cleaning up the messes other people left behind. The job comes with such intense scrutiny and so certain a guarantee of failure that only one other person even bothered applying for it. Said scholar and activist Mark L. Denton, "It just goes to show you that, in this country, a black man still can't catch a break."

YES WE DID


Stanotte, stamattina e nei giorni scorsi ci avete letto, scritto in tantissimi. Grazie per l'attenzione

YES WE DID


Dio benedica il giovane indiano che lavora da subway e mi ha fatto un panino all'una di notte. Senza di lui non sarei qua a scrivere. La gente sta tornando a casa, meno commossa e più felice di quanto possiate immaginare. La gente si abbraccia, i poliziotti salutano e il mondo sembra migliore. Durerà una notte, d'accordo, ma che notte. McCain ha fatto un discorso bello e sincero. Importante per come ha toccato il tema della razza parlando ai suoi elettori.
Obama, per una volta, è stato così, così. Il discorso è bello, ma il ritmo, non è quello solito. Sarà anche controllato e tranquillo, ma questo non è uno scherzo (e due giorni fa gli è morta la nonna). Prima che il presidente salisse sul palco, sugli schermi passava un filmato che valorizzava il lavoro fatto, la partecipazione, la voglia di contare di tutti.
Indiana, Missouri, North Carolina e Montana restano ancora da assegnare. In tre su quattro Obama è in vantaggio di un punto. Buonanotte a me e buongiorno a tutti.

Una nuova foto per il nostro blog

Abbiamo pensato varie volte a cosa avremmo scritto in questo momento. Di retorica se ne farà tanta in queste ore, tante parole verranno sprecate anche dagli eterni sconfitti italiani per accomunarsi ai vincitori di oltre oceano. Forse questa foto, e il confronto con quella che vedete nella descrizione del nostro blog, vale molto più di tante righe scritte. Leggetevi il discorso di Obama di questa notte e guardatevi le foto della festa che si sta svolgendo ora in tutti i fusi orari degli Stati Uniti.
Buon giorno a tutte/i, stasera al Flexi ci sarà da divertirsi.

Live blogging finale

04.21 Nel 2000 ci furono sorprese. Anche nel 2004. Non sembra il caso adesso: Obama potrebbe addirittura superare i 350 voti elettorali. A dopo per l'inizio dell'analisi dei dati. Smile.
04.16 30 mila voti di vantaggio per Obama in Virginia.
04.07 anche la Florida sembra andare bene.
04.05 arriva l'Iowa.
04.03 sorpasso in Virginia, + 13 mila voti per Obama.
03.54 Pare che a Chicago sia partita la festa.
03.48 Sembra essere finita.
Da ora si usa solo questo post fino al count down. Speriamo presto.

ANCHE IL NEW MEXICO

Per ora parlano Fox e Mnsbc

OHIO ASSEGNATO A OBAMA

basta il titolo

Varie

Alla Virginia manca il dato delle contee del nord, quelle "blu"; in Missouri, stato senza early voting, le cose procedono in modo disastroso. Cnn attribuisce Michigan e Minnesota a Obama.

Update: Arizona too close too call, Winsconsin a Obama; Georgia e North Dakota a McCain.

tenete a mente l'orologio, e ricordate il fuso a - 6

Negli stati in bilico le cose vanno lentamente

In Virginia assegnati solo un milione di voti, siamo a un terzo.

Al Senato intanto..

.. due seggi chiave vanno ai democratici. Elizabeth Dole viene sbattuta fuori in North Carolina assieme al suo collega di partito del New Hempshire Sununu. Good news.

Le statistiche dicono..

.. che un sacco di gente si sta connettendo al blog. Nel 2012 Mentana disoccupato e telecomandi sequestrati.

Mark Halperin scrive:

McCain wins: Kentucky, South Carolina, Tennessee, Oklahoma

Obama wins: Vermont, Pennsylvania, Illinois, New Jersey, Massachusetts, Maryland, Connecticut, New Hampshire, Maine, Delaware, DC

NBC's Williams: Ohio is too close to call, but Obama is “leading.”

States with closed polls that are too close to call: Indiana, Ohio, West Virginia, Virginia, North Carolina, Georgia, Florida, Missouri, Alabama, Mississippi.

I network assegnano la Pennsylvania a Obama

Sprovvisti del solido Viminale, i network americani "chiamano" gli stati. Abc e Msnbc lo hanno appena fatto, è un dato importante. Aspettiamo. E' il fallimento del progetto di penetrazione di McCain qui. Un punto forte a favore di Obama.

Votare in compagnia


La signora della foto ha 105 anni e vive in South Carolina. Mi sa che da noi questa roba non si può fare. Foto divertenti dai seggi a questo link.

Vigo County, la contea che non sbaglia

E' la contea che si avvicina di più al voto nazionale dal 1892 a oggi; si è sbagliata solo due volte. E' in Indiana ma è molto vicina all'Illinois, e questo potrebbe distorcere il risultato a favore di Obama, che a Vigo è dato al 57% con l'80% delle schede scrutinate (il commento di patrickmahy più sotto segnala la faccenda con la solita perizia). Un articolo su questa amena località e le sue abitudini elettorali su Indystar.com.

LA Cbs dà la Virginia a Obama, nettamente

Mentre l'Ohio, secondo Fox News, resterebbe repubblicano. I seggi nella costa est sono chiusi: compagni, la parola d'ordine è TENERE D'OCCHIO LA VIRGINIA.

Sediamo gli animi

Ecco in questo link le - ottime - 10 ragioni di Nat Silver per le quali vanno ignorati gli exit polls. Abbeveratevi alla sua fonte di saggezza e smettete di scalpitare (però, siccome ci piace contraddirci, un po' di dati li daremo lo stesso).

Chiudono i seggi. Proiezioni dell'Indiana pro Obama

Sono solo proiezioni, ricordiamoci delle brutte sorprese del 2004. In Indiana i seggi chiudono presto, Obama è dato vincente. Secondo Drudge Report, Obama va alla grande ianche n Pennsylvania. Fosse così, praticamente è già finita. Aspettiamo, perché quest'anno un elemento distorsivo per gli exit polls è l'aumento del voto giovanile. Scrive Stanley Greenberg, "guru" elettorale degli anni di Clinton:


"The biggest problem with exit polls is... we do know that young voters are much more likely to do an exit survey and seniors are much less likely to do an exit poll. So exit polls are heavily waited to young people, which normal bias favors Democrats especially this year."

4 novembre 2008

Due anni vissuti pericolosamente e un'ultim'ora (per modo di dire)

Ecco un lungo articolo di oggi/ieri, ripercorre questi dua lunghi anni di maratona elettorale. Per ammazzare il tempo nell'attesa può anche servire. Tra un paio d'ore chiudono i seggi sulla costa est. Il dubbio, il problema per la velocità dei risultati sta, oltre che nella loro consistenza, nella possibilità che l'uscita dagli uffici moltiplichi le file, le allunghi talmente da prolungare di parecchio la chiusura dei seggi in quei primi Stati importanti in cui si vota (Indiana, che è più a ovest ma chiude prima, Virginia, Florida, North Carolina).

Bush non va al seggio e altre pillole


Bush, una scelta senza precedenti, ha votato per absentee ballot. Meglio non farsi vedere in giro il giorno delle elezioni.
Ieri il quotidiano della città natale di Cheney ha endorsed Obama.
Le file sono mostruose, ad Atlanta la gente era al seggio alle tre del mattino. Una signora ringrazia - piangendo - dio di averla fatta vivere fino a oggi.
McCain farà tre comizi anche oggi, in Nevada, Colorado, New Mexico. In Colorado ci si aspetta un'affluenza vicina al 90 per cento. Obama andrà in Indiana a fare get out the vote. Entrambe le scelte sono senza precedenti.

La democrazia che non ama il popolo

In questo momento siamo abbagliati dalle file di persone che vanno a votare. Un'energia che invidiamo, ma ricordiamoci che l'America è un paese dove la democrazia è antica quanto distorta, dove anche affermare il proprio diritto al voto può essere complicato. Una nostra riflessione sull'America, la democrazia e la partecipazione in questo post di approfondimento.

Questa volta ci mettiamo la faccia

Sono cose che sapete, ma questa volta usciamo allo scoperto. www.agenziami.it

Chicago, ai seggi tutto liscio

Non è questo il luogo adatto per seguire le operazioni di voto. Qua non c'è storia e tutto sta filando abbastanza tranquillo. Alle nove di stamane, nei due seggi della periferia sperduta dove siamo andati a vedere, aveva votato il doppio della gente dell'ultima volta. Ancora poca comunque. Non c'erano file e tranne per una macchina che è andata in bomba, non si registravano episodi spiacevoli. Si vota nelle librerie, nei ristoranti, nei locali, nei grandi condomini. La sacralità del voto non è esattamente uguale a quella che c'è da noi. Il sistema per votare, però, funziona meglio persino in Italia.

E' oggi

Le mamme-calcio e le elezioni

L'aggettivo storico per queste elezioni si spreca, ne parlano tutti. Pure le "soccer-moms", le donne preoccupate solo di portare i figli a giocare a pallone sono state coinvolte nella campagna elettorale. Quattro anni fa, si disse che questo gruppo sociale aveva fatto la fortuna di Bush. Ora il vento è cambiato anche per loro. Ci scrive una "mamma-calcio" dalla California:

"votare è la prima cosa che ho fatto stamattina. Ho trovato la fila fuori dalla porta. Non è MAI successo al mio seggio. Vota il 70-80% ma in piccoli gruppi che vanno e vengono, di solito. Sono rimasta sconvolta. Ci ho messo un'ora a fare tutta la fila. Ridevamo tutti, parlavamo e gli scrutatori ci portavano la colazione e degli snack a tutti quelli che eravamo in fila. Potevi sentire la Storia che si faceva."

Votano, votano, votano

Molti americani sono in fila ai seggi. Molti di quelli che vedete nelle foto sono neri, perchè molte città americane sono a maggioranza nera. Il Los Angeles Times fa un lungo quadro di come sta andando l'affluenza, ovviamente senza numeri perchè in America non si usa dare il dato di affluenza delle 11 come da noi. Fino a poco tempo fa non era molto importante. Sempre sullo stesso giornale, trovate la situazione dei casini ai seggi: sono parecchi. Su due categorie ha scommesso la nuova coalizione obamiana, i neri (di cui ci parla il conservatore Wall Street Journal) e i giovani. Su American Prospect, un articolo di uno della nostra generazione che ci fa scendere la lacrimuccia quando scrive cose così:

We will vote because we want to be a part of history. We want to sit down with our children and grandchildren as they hit the history books and tell them colorful stories about the election of ‘08 with all its unprecedented twists and turns, invoke the feeling in the air as we strolled to our polling place, and pat them on the head, saying, "Someday, sweetie, you too will get to vote in a groundbreaking election."

We will vote because we have found the real world is sometimes an alienating place, and this is a way to feel less alone.

Stiamo a vedere. I primi risultati veri verso l'una-le due italiane. Domani sera ci vediamo al Flexi con i nostri lettori romani, non mancate.

Problemi ai seggi

Virginia: la NAACP (la National Association for the Advancement of Colored People) denuncia l'inadeguatezza dell'intero sistema di voto. Lo stato prevede una macchina elettorale ogni 750 elettori: ipotizzando che ogni votante impieghi 5 minuti per adempiere ai suoi doveri, nei seggi con molta afluenza si potrebbe restare in fila fino a venerdì.

Il primo seggio a Obama, problemi sparsi con le voting machines

C'è un piccolo paesino del New Hampshire dove si vota a mezzanotte, sono pochi e facendo lo spoglio subito fanno notizia. Si chiama Dixville Notch e dal 1968 nessun democratico vinceva. Obama ha vinto 16 a 7. Vuol dire qualcosa? No, ma intanto porti a casa.
In North Carolina, Virgina e New Hampshire si sono già verificati problemi con le voting machines, a Richmond e Raleigh. Ora stanno usando le schede di carta. McCain ha fatto un comizio in Arizona ieri notte, sia Obama che lui saranno oggi in Indiana.

Italians for Obama (quelli d'America, non quelli all'amatriciana)


Questa è una bella storia di passione politica e tecnologia. Proprio come la campagna di Obama. Avete visto già la foto con lo striscione La Roma non si discute si Obama. Vincenzo fa il medico proprio qui a Chicago, Letizia (che insegnava latino e greco in Italia) ha una bella bakery, un caffé/pasticceria, dove dalle torte spuntano le faccette del candidato; inoltre gestisce con Fabio, loro figlio, un ottimo wine bar. Sono qui dai primi anni 90. Tifano la Maggica e Obama. E hanno postato commenti sul nostro blog. Siamo riusciti ad entrare in contatto, ci siamo visti, abbiamo parlato della politica americana e della loro vita qua. Fabio, ha la testa nel voto di oggi e ha passato la serata a postare su mybarackobama.com e a coordinare i volontari che alle otto di stamane partiranno per portare la gente a votare in una contea arretrata e repubblicana dell'Indiana. Una bella sera, nell'attesa nervosa di una nottata che potrebbe davvero essere di quelle da ricordare. Speriamo bene e grazie davvero a tutti.