30 dicembre 2008

Una riflessione su Gaza

Nulla di nuovo, la solita tragedia mediorientale. Israele invade un paese limitrofo con la speranza di portare un "regime change". Questa volta si tratta di rovesciare Hamas, 2 anni fa era la volta di Hizbullah, negli anni '80 era l'Olp in Libano. Vista come è andata in passato: auguri. Dall'altro lato un esercito irregolare arabo che provoca gli israeliani e se ne infischia delle ripercussioni sui civili, quello che importa è tenere saldo il legame con i padrini siriani ed iraniani. La guerra di questi giorni era in preparazione da 6 mesi, ci ha informato la stampa israeliana. Questo vuol dire che era già in gestazione quando Obama è stato nella regione. Le cose sono due: o gliel'hanno detto e lui ha acconsentito (e da qui le sue dichiarazioni sulla necessità di difendere le città israeliane dai missili) oppure gliel'hanno detto in maniera diversa, parlando di una semplice rappresaglia invece di una guerra vera e anche qui lui ha acconsentito. In ogni caso non si è reso conto delle conseguenze: i nemici degli Usa saranno più forti (secondo voi chi vincerà le presidenziali iraniane?), la nuova leadership israeliana che uscirà dalle elezioni del 10 febbraio avrà molta poca voglia di negoziare, ci sarà una nuova urgenza mediorientale di cui occuparsi. L'unica soluzione al problema dei missili era andare a parlare con siriani ed iraniani: negoziare un nuovo ordine regionale in cui almeno uno dei due soggetti avesse un buon motivo per mollare Hizbullah e Hamas; stringere subito un accordo su Israele/Palestina che implichi la creazione di un vero stato palestinese; liberare e sostenere la "nuova guardia" di Fatah, l'unica alternativa ad Hamas. Insomma, puntare alla stabilità e a un nuovo ordine regionale piuttosto che a improbabili cambiamenti di regime. Essere realisti e non ideologici. Avere un'agenda propria, non lasciarsela definire dalla destra israeliana, creare interlocutori e non nemici assoluti, "vedere" l'altro. Questo ci si aspetta dal primo presidente americano "global" anche nella biografia. Ci riuscirà?

29 dicembre 2008

Una crisi fresca e terribile per la nuova presidenza


Chissà se, oltre alle valutazioni elettorali, la scelta di Israele di colpire Gaza in maniera tanto dura oggi non sia dettata dal timore per la entrante amministrazione Obama (o comunque dalla finestra aperta dal vuoto di potere a Washington). Fatto sta che, oltra ai guai già esistenti, il presidente eletto si troverà ad avere a che fare con una disastrosa situazione in Pakistan/Afghanistan (e su questo la Cina sta mediando tra Islamabad e Delhi, rubando la scena) e con una catastrofe in Medio oriente. Ecco un interessante analisi di Huffington sul possibile ruolo degli ebrei progressisti nella prossima amministrazione. The Nation raccoglie una serie di voci pacifiste americane, mentre questo è il comunicato di J street, organizzazione ebraica che prende le distanze dall'Aipac, la lobby politica di Israele a Washington. Il Washington post critica la scelta di Tel Aviv con un editoriale dal titolo: Israele colpisce, l'Iran vince. E per finire roba colta, lunga e interessante, che in questi giorni vale la pena di leggere: un lungo articolo sulla New York Review of books precedente alla crisi. Il titolo è perfetto: come non fare la pace nel Medio oriente. Ecco un esempio perfetto: Nasrallah torna di moda in Libano, l'Anp è indebolita e in tutto il mondo si bruciano le bandiere di Israele. Un modo perfetto per sentirsi accerchiati come sempre, un modo perfetto per rimanerlo qualche anno ancora.

27 dicembre 2008

Addio carta stampata...

Non è un post che faccia piacere scrivere - specie a uno il cui giornale sta affogando - ma la notizia è importante e conferma una cosa, non particolarmente originale, che scriviamo nel libro. Il Pew research centre ha pubblicato un rapporto in cui ci narra del balzo di internet come fonte di informazione (dal 20 al 40 per cento in un anno). Scende la Tv, salgono di pochissimo i giornali (1 per cento, ma molto di più tra i giovani) e un poco la radio. Il boom, per tutte le notizie è quello della rete. Attenzione, la rete non sono solo i blog, ma anche molto i siti di informazione dei grandi media. Come avrete notato, tutti caricano video, approfondimenti, reportage fotografici, trasmettono le conferenze stampa in diretta. Il problema (per i grandi giornali, è che una pagina di pubblicità stampata costa molto di più di un pop-up, di un banner o di una inserzione. Ecco qua il breve rapporto di Pew (c'è n'è anche uno sulla diversità dei quartieri che sembra interessante, ma non abbiamo il tempo di leggerlo). Il declino di Tv e il boom di internet sono una dimostrazione che la scelta obamiana di un uso orizzontale della rete per fare compagna era azzeccata anche perché in sintonia con le tendenze nella società.

23 dicembre 2008

Quante volte caricheremo questa copertina?

Ecco il nostro libro, è il frutto del lavoro fatto con questo blog e di quello che facciamo per davvero nella vita. E' un tentativo di raccontare perché secondo noi ha vinto Obama, come ha fatto e cosa cambia per la politica economica ed estera della prima potenza mondiale. Esce a fine gennaio, nei giorni attorno all'inaugurazione cominceremo ad andare in tour per presentarlo.

19 dicembre 2008

Il salva auto di Bush

Il presidente ha evitato di lasciare in ricordo anche il fallimento delle big three ed ha preso un pugno di miliardi dal pacchetto Paulson per prestarli a General motors e Chrysler (Ford, per ora, non ne ha bisogno). La Casa Bianca impone vincoli stretti (niente benefit, niente dividendi, ristrutturazione industriale e salariale). Il sindacato auto di Detroit ha già chiesto a Obama di ripensare alla parte che riguarda il lavoro, ma gli operai di Detroit sono famosi per essere i meglio pagati d'America. E sono rimasti in pochi. Anche questa partita è di grande interesse e va seguita. Salon risponde a una domanda di grande interesse: come mai i repubblicani son tanto contrari al salvataggio? Perché a Sud ci sono le fabbriche Toyota e se i tre grandi chiudono è un problema per il Michigan e pèer altri Stati dominati dai democratici (e una manna per gli Stati dei senatori che hanno votato contro il salvataggio deciso da Bush). Ecco l'articolo di Salon

Parentesi italiana

Viene da blob di qualche giorno fa e in rete ha già fatto furore, ma visto che oggi il PD italiano fa autocoscienza lo pubblichiamo: alcuni momenti di lucidità andrebbero conservati come pietre preziose (no, accidenti, le pietre no: poi in certi ambienti te le rubano..)

Gli americani si muovono meno

Ecco una ricerca che dice qualcosa dell'America. Dove vanno e quanto si muovono i cittadini degli States? Nel biennio 2006-2007 si sono mossi meno che in passato. Il Pew research centre analizza i dati e ci fornisce una mappetta niente male: ti ci muovi sopra e vedi i flussi, da nord verso la Florida e così via, per una serie di bienni. E' interessante in sé e lo è anche per capire i flussi elettorali, se, come e perché la geografia del voto cambia con gli spostamenti. Una seconda ricerchina ci indica che solo l'11 per cento degli americani crede che Bush abbia fatto qualcosa per essere ricordato in positivo. Non serviva un sondaggio.

18 dicembre 2008

Il bue dà del cornuto all'asino

David Frum è un intellettuale conservatore di origine canadese, al quale viene attribuita l'invenzione del refrain "asse del male" quando lavorava per l'amministrazione Bush. E' autore oggi di un testo dal titolo Comeback: Conservatism that can win again. Su "The Week" scrive un articolo che comincia con un incipit interessante e veritiero: "The vice of the American political system is not authoritarianism. It is corruption". Obama paga la sua origine politica, Chicago. E' indubbio che lì Obama ha messo su pelo sullo stomaco, scaltrezza e ha fatto apprendistato con la macchina del consenso popolare del partito democratico più simile alla Dc di Gava d'America. Il vecchio sindaco Daley - il padre di quello attuale - fece votare anche i morti pur di far divenire presidente JFK.

Però mai come oggi i repubblicani devono tacere su qualsiasi cosa assomigli a una "questione morale" in stila americano: questa amministrazione - dal caso di Jack Abramoff a quello di Tom DeLay, potentissimo Congressman dell'era Bush - è stata avida fino ad arrivare a danneggiare se stessa - troppa corruzione rende ciechi. Già dalle elezioni del 2006 il tema della corruzione è stato parte della campagna elettorale dei democratici, una risorsa efficace e utile.

La strategia sembra chiara. Smontare l'aura di santità di Obama e dire che è tutto come prima: è un amico di corrotti moderato e opportunista. Anche in Italia c'è chi utilizza la stessa strategia, pur di dire che in fondo dai tempi di Bush non cambierà molto. Poveri struzzi: il mondo si capovolge - a prescindere da Obama - e loro non sanno che sono cambiate le politiche, le persone, l'ordine di ciò che è possibile pensare e fare è rovesciato rispetto a quello del 2003. La famosa frase di Reagan per il quale "lo stato è il problema, non la soluzione" oggi fa sorridere per la sua inconsistenza. Erano meglio i comunisti di una volta: almeno, quando perdevano, facevano autocritica. Oggi la sconfitta storica dell'ideologia conservatrice è l'unico, vero punto che gli stessi conservatori dovrebbero tenere in agenda.

L'Afghanistan e le vie d'uscita

Joe Klein, che ha seguito come firma di punta la campagna Obama per Time, è stato in Afghanistan di recente. Ecco il suo articolo, il titolo è La guerra senza scopo, e la dice tutta sulla difficoltà che gli Usa stanno incontrando. Ecco un commento sulla politica estera da The Guardian ed un lungo reportage tra e su i talebani dallo stesso quotidiano. E, per i più volenterosi, un saggio da Foreign affairs dal titolo Oltre l'Iraq, l'agenda mediorientale di Obama. Quali sono i nodi, le questioni aperte, come e con chi trattare? Il direttore del Foreign policy institute e quello del programma Medio oriente della Brookings institution mettono in fila domande e (le loro) risposte. Con Teheran si parla, ma li si minaccia anche un po', è una delle tesi.
Un tema di grande dibattito è anche se, come e con ch discutere in Afghanistan. Ahmed Rashid, tra i più ascltati giornalisti-esperti di Pakistan, Afghanistan e talebani, sostiene nel suo ultimo libro (Caos Asia, Feltrinelli) che è giunta l'ora di parlare con gli studenti di religione che ne hanno voglia. Ce ne sono di molto diversi tra loro e molti, con aiuti e impunità, sarebbero pronti a tornare a casa. Per Salon.com, Obama ha un mal di testa afghano.

Il presidente pragmatico secondo The nation

Ecco un lungo articolo da The Nation sul pragmatico Obama. Il giornale della sinistra Usa si chiede se e come il pragmatismo sia una strada per stare fermi, vendere - come ha fatto Greenspan - un'ideologia ammantata di neutralità o altro. Inutile dire, che a The Nation chiedono un pragmatismo rooseveltiano.

17 dicembre 2008

L'uomo dell'anno, stavolta, non è una sorpresa

Né Putin, né “You", l'uomo del 2008, ma non poteva proprio essere altrimenti, è il presidente eletto. Ecco lo speciale di Time, per chi non la avesse già visto. Segnaliamo solo una cosa, la risposta alla prima domanda di una lunga intervista. Cosa vorrebbe che guardassero gli elettori tra due anni, nell'anno delle elezioni di mezzo termine? I temi sono quelli di cui abbiamo parlato in campagna elettorale: Sul fronte interno, siamo usciti dalla peggior crisi dal 1929 in poi? Ci siamo dotati di regole che impediscano il ripetersi di situazioni simili? Abbiamo creato abbastanza lavoro pagato in maniera che le famiglie ce la facciano a tirare avanti? Abbiamo ridotto i costi della sanità e allargato la copertura? Siamo partiti con un piano che faccia transitare l'America verso una nuova politica energetica? Abbiamo cominciato a rivitalizzare il nostro sistema di educazione. E in politica estera, abbiamo chiuso Guantanamo responsabilmente, messo da parte la tortura e ricostruito il giusto equlibrio tra la nostra sicurezza e la Costituzione? Abbiamo ricostruito alleanze efficaci? Ho portato via le truppe dall'Iraq e rafforzato il nostro approccio all'Afghanistan - non solo militarmente ma anche dal punto di vista diplomatico e dello sviluppo? Siamo stati capaci di restituire slancio alle istituzioni internazionali per affrontare le grandi questioni che non siamo in grado di affrontare da soli come il cambiamento climatico? Se ci riesce, la prossima volta lo votiamo.

16 dicembre 2008

C'è una lobby dell'inquinamento, eccola qua

Ecco la sintesi video del discorso del CEO di Massey energy e capo della Camera di commercio degli Stati Uniti: il riscaldamento del pianeta non esiste e Pelosi è una greeniac (verde-maniaca). Il conflitto sulla conversione dell'economia esiste. Ecco un articolo (e accanto i link al dossier) da Mother Jones

15 dicembre 2008

L'oggetto dell'anno

Plouffe: Come abbiamo vinto

Ecco una lunga intervista al genio della campagna democratica (chissà, tra qualche anno sarà vituperato come Karl Rove, anche se non ha lo stesso ruolo). Un esempio interessante: le campagne tradizionali spendevano 70 per la comuncazione e 30 per le ground operation, Obama ha speso 50/50. Sono tanti soldi, cambiano molte cose.
Il blog è un po' a secco, stiamo finendo il libro sulle elezioni, Obama e l'America e siamoo più che impegnatissimi. Presto approfondimenti di politica estera: quest'Iraq e questo Afghanistan sono di grande interesse.

10 dicembre 2008

Il presidente parla: un'intervista al Chicago Tribune

Giurerà come Barack Hussein Obama, difende la scelta di Gates e altro ancora. Ecco una delle prima interviste del nuovo presidente. La trovate qui. E, a proposito di nomine, Barack Obama ha scelto il vice sindaco di Los Angeles, Nancy Sutley, come responsabile del Consiglio della Casa Bianca sulla Qualità ambientale. Lo hanno rivelato fonti democratiche, ricordando che la Sutley - schierata con Hillary Clinton alle primarie e militante del movimento omosessuale - è la prima nomina per quanto riguarda l'ambiente e sarà seguita nelle prossime settimane dalla scelta del segretario all'Energia e del capo dell'Agenzia di protezione dell'ambiente.

9 dicembre 2008

Chicago è sempre Chicago

In pochi ci avranno pensato, ma c'era un seggio vacante nel Senato americano: quello del nuovo presidente Obama. Secondo la legge, la scelta del suo successore sarebbe spettata al governatore dell'Illinois, Stato che il neo-presidente rappresentava in Campidoglio. Oggi colpo di scena però, il governatore finisce in manette insieme al suo Capo di gabinetto con un'accusa pesante: il tentativo di "vendita" del seggio. In più Blagojevich è accusato di aver chiesto mazzette ad associazioni che ricevevano fondi pubblici e di aver fatto mancare l'aiuto dello Stato alla società che edita il Chicago Tribune condizionandolo al licenziamento degli editorialisti ostili. Il giornale di Chicago dedica ovviamente molto spazio alla vicenda, se avete meno tempo leggetevi il Washington Post. Su Politico poi c'è tutta la storia: "Blago" avrebbe nominato Valerie Jarrett, una delle maggiori consigliere e amiche di Obama, in cambio di un posto da Segretario alla Sanità.
Chicago è sempre un bel posto per fare politica. Ora bisognerà capire cosa sapeva Obama di tutta la faccenda. Sta di fatto che il Segretario alla Sanità è diventato qualcun altro.

7 dicembre 2008

Il più grande finanziatore di questa campagna

Nel libro che stiamo scrivendo vi parleremo con più dettagli di chi ha permesso anche finanziariamente la vittoria di Barack Obama: è un po' più complicato di come lo abbiamo letto sui giornali e anche di come l'avevamo capita noi. Complicata ed interessante. Per esempio, il più grande singolo finanziatore della recente campagna non è una grande multinazionale ma uno dei sindacati americani emergenti: la SEIU, che rappresenta prevalentemente i lavoratori dei servizi, spesso quelli dei settori tradizionalmente meno sindacalizzati. Ora fanno la campagna, tra le altre cose, per "tenere la riforma della sanità sulla mappa", in altre parole per far sì che il presidente non se ne dimentichi. D'altronde, come ci spiega con un po' di acredine il Wall Street Journal, 85 milioni di dollari di tutta la campagna elettorale venivano solo da questo sindacato mentre tutte assieme le confederazioni ne hanno versati 450. Tanto per far capire quanto sono potenti, quelli della SEIU avevano messo da parte anche 10 milioni di dollari per fare campagne negative contro chi non li ha aiutati. Il ruolo dei sindacati c'è sempre stato nelle campagne americane, soprattutto in quelle democratiche, il problema è cosa dicono quelle organizzazioni. Leggetevi l'articolo del WSJ e avrete delle sorprese.

6 dicembre 2008

Becerra for President

Finalmente i progressisti americani tirano un sospiro di sollievo: pare proprio che il deputato della California Xavier Becerra diverrà lo "Us Trade Representative" dell'amministrazione Obama (qui l'articolo di The Nation). Prima considerazione: due ispanici nei posti chiave che riguardano il commercio, Becerra e Bill Richardson, futuro Segretario al commercio. America latina, preparati.

Becerra è amato dai sindacati e dalla "sinistra" del partito: in quelle classifiche stilate da ogni gruppo per osservare la prossimità con i propri eletti, Becerrà raggiunge il 100% con l'Afl-Cio, entusiasta del suo lavoro da congressman. Fa parte del Congressional Progressive Caucus, ha votato a favore del Nafta appena arrivato in Congresso per poi fare autocritica, rappresenta una rottura netta con gli ultimi 20 anni di politica commerciale degli Stati uniti ma in realtà è anche un pragmatico, in pieno stile obamiano (non è Sherrod Brown, per intenderci, il bellicoso senatore dell'Ohio sulle barricate contro molti accordi commerciali americani). La nomina di Becerra sarebbe un sospiro di sollievo da parte dei sindacati, a fronte delle notizie sempre più preoccupanti a proposito della disoccupazione che arrivano dagli Usa.

5 dicembre 2008

"Il partito di Obama" e la riforma della sanità

L'espressione che vedete tra virgolette nel titolo non è nostra ma della politologa Nadia Urbinati. Noi però come tutti i sapientoni l'avevamo detto già: Obama non butterà via la straordinaria mobilitazione e partecipazione che lo ha portato alla Casa Bianca. E infatti oggi il Washington Post ci racconta di come il vero mentore del nuovo presidente, Tom Daschle, stia mobilitando migliaia di sostenitori nel paese per riformare la sanità. A tutti viene inviata una mail chiedendogli cosa vorrebbero cambiare del sistema sanitario, se hanno da raccontare una storia, se vogliono fare delle proposte. Poi Daschle li incontra, ci parla, sente le proposte e si fa un'idea. Ascolta insomma, quello che il nostro centrosinistra fa solo quando non ha proprio nulla di dire. Il 13 e 14 dicembre in America tutti quelli che hanno partecipato alla campagna di Obama si incontreranno nelle case per decidere di come "portare il cambiamento a Washington e nelle proprie comunità". Da noi si discuterà, forse, ancora di PD del nord e, ahimè, di "questione morale nel PD". Stiamo per scrivere il capitolo del nostro libro intitolato "Maccaroni", in cui si parla del malato processo di americanizzazione della nostra politica. Se avete suggerimenti scrivete un commento qui sotto..

4 dicembre 2008

Ci eravamo tanto odiati


Il Boston Globe ci ricorda le tappe delle polemiche feroci tra Obama e Clinton durante le primarie a proposito della politica estera. Una bella carrellata di testi d'archivio e immagini fotografiche. E' la politica, bellezza..

3 dicembre 2008

Goodbye, Odetta

Stiamo lavorando al libro

Come i nostri lettori e le nostre lettrici più affezionati/e avranno notato siamo stati un po' più assenti del solito nell'ultimo periodo. Tranquilli, non ci hanno cooptato nella Casa Bianca ma stiamo lavorando anche per voi. Stiamo scrivendo un libro per la casa editrice "gli asini" proprio su questo anno elettorale e sul nuovo presidente. Vi diremo chi è secondo noi Barack Hussein Obama, perchè e come ha vinto, come funziona (male) la democrazia americana e quali sfide in politica estera e in economia si troverà a fronteggiare il nuovo presidente. Infine, cercheremo di capire quali domande pone a noi italiani la vittoria di Barack Obama e quanto sia stato incompreso questo fenomeno dai nostri "maccaroni". Non spegneremo il blog perchè c'è ancora tanto da dire, ma abbiate un po' di pazienza. Usciremo il 20 gennaio e speriamo di non deludervi.

2 dicembre 2008

Ancora analisi del voto

I repubblicani stanno messi male per almeno 3 ragioni, ce lo spiega Albert Hunt di Bloomberg. Primo, la loro campagna contro l'immigrazione gli ha alienato il voto delle minoranze il cui peso sul totale dell'elettorato è cresciuto del 3% in 4 anni. Secondo, le loro posizioni conservatrici sui gay e l'aborto gli hanno alienato i giovani, che sono l'elettorato del futuro e anch'essi hanno votato per Obama più di quanto avessero fatto per Kerry o Gore. Terzo, Obama ha sfondato anche nei suburbi e negli "exurbs" (i suburbi più lontani dal centro città) che oramai sono etnicamente più misti e sono abitati più da giovani. I vecchi abitanti moderati di questi posti, poi, sono stanchi delle battaglie ideologiche dei repubblicani. Michael Tomasky ha scritto un bell'articolo sulla New York Review of Books in cui discute di due libri molto importanti usciti di recente sulla demografia elettorale americana. Importante il suo ragionamento sul tema annoso del rapporto tra democratici e "white working-class". Non è vero che il problema è con la classe di reddito: è con la classe di istruzione, sono solo i bianchi meno istruiti a non votare molto democratico. E sono sempre di meno. Sempre sulla stessa rivista, Elizabeth Drew da la sua versione del presunto centrismo di Obama: ha a che fare con la sua personalità riflessiva ma ciò che ha messo in moto con la campagna, le migliaia di persone mobilitate, gli servirà per far passare il suo programma. Staremo a vedere.

Il Medio Oriente che aspetta Hillary

Ecco in un articolo abbastanza schematico di RealClearWorld le sfide che impegneranno da subito Hillary Clinton sul processo di pace: dal 9 gennaio per esempio la legittimità della presidenza di Abu Mazen sarà quantomeno dubbia, un mese dopo le elezioni israeliane potrebbero portare al potere Benjamin Netanyahu. In poco tempo, potrebbe ritrovarsi senza interlocutori veri. Ecco che la scelta di un buon inviato per il Medio Oriente è cruciale. Huffington Post propone Colin Powell e vede come la peste Dennis Ross, troppo vicino ad Israele. Il giornale israeliano progressista Ha'Aretz parla invece di Daniel Kurtzer che noi intervistammo in forma riservata la scorsa estate: è uno che ha fatto tesoro degli errori dell'amministrazione Clinton e anche solo per questo sarebbe una buona scelta. Infine, David Corn di Mother Jones ci invita a non sottovalutare un'altra figura della nuova amministrazione Obama e cioè il generale Jones, nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale: un militare ma anche un diplomatico, potrebbe far funzionare di nuovo l'apparato di intelligence e diplomatico che è fermo dall'epoca d'oro dei neocon.

1 dicembre 2008

Ecco la politica estera di Obama


Come previsto da giorni, Barack Obama ha presentato oggi il suo team di politica estera. Niente sorprese: co sono Clinton e Gates, poi Napolitano alla sicurezza interna, l'ex generale Jones come advisor del presidente, Rice (Susan) all'Onu. Nel suo discorso Obama ha parlato di restaurare la leadership americana usando più diplomazia, facendosi più amici e meno nemici. Ci sono parole interessanti e grande abilità politica nelle scelte del futuro presidente. Tutti coloro che hanno avuto la parola sul palco di Chicago hanno parlato di ambiente, povertà, diplomazia e Onu. La presenza del futuro Attorney general è anch'essa un segnale: la Giustizia verrà amministrata seguendo i principi della costituzione.
Il tema del giorno era, come è ovvio, perché Hillary? La risposta d Obama, oltre agli elogi, è stata più o meno: "Molte delle persone di questo gruppo hanno già lavorato assieme. Non avrei chiesto loro di far parte di questa amministrazione se non condividessimo un’idea di comune di quale debba essere il nostro ruolo nel mondo. Dalla forza del nostro esercito alla saggezza della nostra diplomazia. E’ venuto il momento di riconquistare la leadership su tutti i terreni. Credo molto nelle personalità forti e nelle opinioni forti. Un pericolo alla Casa Bianca è che nessuno obietti alle idee degli altri. Ma io darò la linea politica, mi aspetto che la implementino e mi prenderò la responsabilità che ciò accada". Sul palco, in teoria, sembravano tutti d'accordo. E, come ricordano tutti gli osservatori, in fondo alle primarie lo scontro è stato sul voto all'Iraq e l'esperienza, non sulle cose vere. Il senatore Feingold, il più liberal del Congresso, l'unico a votare contro il Patriot Act, parlando con The Nation, si è detto impressionato della preparazione di Hillary durante un viaggio in Iraq e Afghanistan, spiegando così, lui che non ha appoggiato nessuno alle primarie perché non entusiasta dei candidati in lizza, la scelta di Obama. Ecco il video della conferenza stampa. E' istruttivo, l'unico che non parla quasi è Gates, che in qualche modo viene miracolato dal nuovo presidente.

Ahmed Rashid su Mumbai, Obama e il caos in Asia centrale


Martino Mazzonis (da Liberazione del 1/12)
Ci sono poche persone che conoscono la situazione afghano-pakistana come Ahmed Rashid, giornalista che con il suo "Talebani" - venduto come il pane in tutto il mondo dopo l'11 settembre 2001 - ha spiegato l'ascesa degli studenti coranici afghani. Rashid è da qualche settimana in tour per il mondo a presentare il suo "Caos Asia, il fallimento occidentale nella polveriera del mondo". Il suo è anche un ruolo di esperto per i governi, l'ultimo numero di Foreign Affairs pubblica un suo saggio scritto con Barnett Rubin che tematizza la questione centro-asiatica. La sua preoccupazione è che la crisi afghana tracimi e trascini l'Asia centrale nel caos. Impossibile non partire dall'attentato di Mumbai. "Credo che dietro ci sia al Qaeda. Sembra di capire che si tratta di pakistani che hanno viaggiato fino a Mumbai, ma potrebbero esserci anche complici indiani. Ma la strage è negli interessi strategici di al Qaeda. Le regioni dove è insediata vengono attaccate dai raid americani e dalle operazione dell'esercito di Islamabad su fronti opposti. L'unica arma che i taelebani e al Qaeda hanno a disposizione per far calare la pressione e far spostare le truppe pakistane. Come? Facendo crescere la tensione tra India e Pakistan, in maniera che l'esercito di Islamabad ridislochi le sue truppe in Kashmir. E' lo stesso metodo usato nel 2002, quando le due potenze nucleari finirono sull'orlo della guerra dopo un attentato al Parlamento indiano. E' molto importante che India e Pakistan siano abbastanza intelligenti da non cadere in questa trappola. Non credo che stavolta ci sia il coinvolgimento del governo pakistano o dell'Isi (i servizi segreti militari ndr ). L'esecito sta combattendo i gruppi terroristici e questi, solo un mese fa, hanno compiuto un attentato all'hotel Marriot di Islamabad uccidendo circa cento persone. La questione vera è che il Pakistan è il centro del terrorismo globale. Nelle regioni tribali di confine vengono addestrate persone che vengono dall'Europa, dall'Asia centrale e da altri Paesi".
Nel suo libro Rashid descrive errori e fallimenti dell'occupazione Nato e dell'amministrazione Bush, gli chiediamo di riassumerli. "Il più grande errore americano è stato l'Iraq. Quella guerra ha significato sottrarre energie, soldi, risorse all'impegno primario. Ha assorbito tutto, lasciando niente per l'Afghanistan, che doveva essere il centro degli sforzi americani. Il secondo errore è lo scarso impegno messo nella ricostruzione, nel cambiare le vite degli afghani quando una parte maggoritaria di questi era ben disposta verso le truppe. Le menti e i cuori degli afghani sono stati asciati ai talebani. Il terzo errore è il mancato confronto con il Pakistan e con l'atteggiamento di Islamabad che dava e dà ospitalità ai talebani nelle regioni di confine. L'amministrazione Bush si è rifiutata di vedere cosa facevano i pakistani e ha negato per anni che i talebani fossero una minaccia altrettanto pericolosa che non al Qaeda. L'ultimo errore è aver lasciato per anni tutto il potere ai signori della guerra quando non c'era un esercito afghano in grado di controllare il territorio".
Cosa dovrebbero fare gli Usa allora? "La mia tesi è che l'amministrazione Obama si dovrà preoccupare di studiare una soluzione regionale. I talebani non sono più un fenomeno locale. Ce ne sono in Afghanistan, in diversi Paesi dell'ex Urss e presto scopriremo se anche in India c'è qualche gruppo che sceglie quell'etichetta e quei legami. Per trovare una soluzione la pace in Afghanistan da sola non basta. La guerra è già nella regione nel suo complesso e, dunque, serve una soluzione regionale. Da dove cominciare? Da un dialogo serio sulla questione del Kashmir. L'esercito pakistano è ossessionato dal Kashmir, ritiene che quello sia il suo confine vulnerabile e che la minaccia più grande per il Paese sia l'India e non l'Afghanistan. Perché l'esercito di Islamabad scelga di spostare truppe verso le regioni di confine e sigillarle, deve essere rassicurato sul Kashmir. Questa è la prima parte della soluzione, la seconda è il coinvolgimento del'Iran. Sono molto contento del fatto che Obama abbia parlato di dialogo con l'Iran e che ci sia la volontà di parlare dell'Afghanistan con Teheran come si fa da molti mesi sull'Iraq. Quando parla di inviare più truppe, il nuovo presidente, parla anche di ricostruzione e aumento della presenza del governo afghano. Oggi non possono essere che segnali, frammenti di una politica delineata in campagna elettorale. Ma sono frammenti incoraggianti. Obama ha parlato di soluzione regionale come anche il generale Petraeus. Sono novità incoraggianti. Ad oggi, chi è rimasto in silenzio è l'Europa".
E perché mai potenze regionali con interessi divergenti dovrebbero sedere a un tavolo regionale? "L'ironia di questa situazione è che nessuna delle potenze locali (Pakistan, India, Russia, Iran, Cina) ha interesse ad un Afghanistan instabile. Eppure ciascun Paese promuoverà l'instabilità per tenere lontani gli altri. L'Iran lavorerà contro i pakistani mentre la Russia farà lo stesso per tenere gli americani sotto pressione. Ma nessuno vuole l'instabilità generata dalla presenza dei talebani il cui ultimo segnale è proprio la terribile vicenda indiana di queste ore. Iraniani e russi sono terrorizzati dalla prospettiva che le migliaia di centro-asiatici che oggi combattono tra Afghanistan e Pakistan tornino a portare il caos in casa loro. Occorrerà quindi confrontarsi con i mutui sospetti degli uni verso gli altri. Ma per questo serve un "pacchetto", non si può sperare di arrivare alla pace mentre la Russia e l'India continuano ad armare i loro rispettivi clienti in Afghanistan. E non puoi chiedere a Mosca di smettere di fornire armi ai suoi o agli iraniani di non armare gli sciiti pakistani senza una soluzione complessiva. Una cosa difficile, forse impossibile da raggiungere, ma bisognerà provare".
Un primo passo, per gli Usa è quello di cominciare a trattare con i talebani. "C'è un nucleo della leadership - quella che ha accolto e protetto Osama - che non è assolutamente disponibile a trattare. Molti talebani, però, combattono per ragioni non religiose: per fedeltà al clan o alla famiglia, perché gli americani hanno bombardato il loro villaggio o ucciso un parente. Questa gente non è necessariamente legata all'ideologia della jihad globale. Combatte perché arrabbiata. Con questa gente si può e deve parlare. C'è chi lo fa già: gli italiani ad Herat o gli olandesi nell'Uruzgan. Occorre dividere il fronte e isolare la parte più estrema, dimostrare che non ci sono alternative al negoziato. Gli Usa devono farsi un'idea di come raggiungere questo risultato. Oggi non ce l'hanno. Se domani un comandante talebano si arrendesse finirebbe a Guantanamo. Serve un'amnistia generale, rieducazione, aiuto a ritornare ai villaggi, serve che a chi lascia le armi venga data una formazione. Insomma, serve un piano. Compito degli americani è averne uno".
L'altro grande problema è la politica pakistana: "C'è tensione tra la nuova leadership politica e l'esercito. Su questo non ci sono dubbi. Certamente, se vogliono davvero impegnarsi a combattere l'insurrezione armata delle regioni di confine, dovranno unire gli sforzi. Ma non lo faranno per conto loro. Stati Uniti ed Europa ci dovranno lavorare".