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21 ottobre 2009

Quasi accordo sull'Iran, quasi stallo sul processo di pace

Sul nucleare iraniano sembra che si sia vicini ad un accordo che permetterebbe all'amministrazione Obama di guadagnare tempo prezioso: una parte consistente dell'uranio verrebbe arricchito in Russia ed in Francia. Ci sono dei ma: bisogna vedere se l'Iran accetta e bisogna capire a che velocità verrebbe trasferito il materiale, onde evitare che gli iraniani giochino sporco mandandone un po' all'estero ma rimpiazzandolo subito per costruire una bomba. Sul processo di pace arabo-israeliano le cose vanno a rilento, come era lecito aspettarsi. Gli israeliani dicono che si è vicini ad un accordo ma attenzione: l'accordo sarebbe solo su cosa mettere alla base del negoziato e non sulla direzione dello stesso. Si partirebbe infatti dalle risoluzioni Onu 242 e 338, cioè da Adamo ed Eva. I palestinesi si aspettavano il congelamento degli insediamenti, ma Netanyahu sembra averla avuta vinta. Il problema è che su questo fronte l'amministrazione Obama misura tutta la debolezza americana in questo momento: non può permettersi di forzare la mano più di tanto con i recalcitranti alleati israeliani. C'è poi un'altra mina su questo fronte: la gestione del rapporto Goldstone che accusa gli israeliani di crimini di guerra. Il governo Netanyahu vuole addirittura cambiare le regole e affermare il diritto "all'autodifesa contro gli atti di terrorismo". Più o meno quanto sostenuto per giustificare tutte le passate operazioni militari dello Stato ebraico. Nel frattempo il neocon israeliano Michael Oren, oggi ambasciatore a Washington, snobba la conferenza di J-Street, la nuova lobby pro-Israele ma anche "pro-pace". A chi volesse saperne di più su come vanno le cose nei Territori Occupati suggeriamo la lettura di "Time for Responsibilities", il diario dell'ultima missione dei pacifisti italiani.

30 settembre 2009

Domani a tavola con l'Iran

Domani per la prima volta Usa e Iran si parleranno veramente e ufficialmente. A Ginevra si riuscono i 5 grandi del consiglio di sicurezza, più la Germania e, appunto, gli iraniani. La situazione attuale è un vero rompicapo: la soluzione militare, anche solo da parte israeliana, è impraticabile come spiega Cordesman sul Wall Street Journal; Russia e Cina non aderiranno mai al tipo di sanzioni "invalidanti" che vogliono gli Usa e cioè il boicottaggio nella raffinazione del petrolio e il divieto d'accesso ai mercati finanziari; la leadership attuale non ha molta voglia di aprire un dialogo a tutto campo, nè chi lavora per Obama sembra aver condiviso questa opzione. E' la critica dei coniugi Leverett che condussero a suo tempo le trattative per l'invasione dell'Afghanistan (fu fatta in cooperazione con Teheran): l'amministrazione non ha fatto nulla di concreto per aprire un dialogo simile a quello che Nixon ebbe con la Cina. Bisognava per esempio sospendere i programmi a favore del cambio di regime a Teheran, tuttora finanziati da Washington. Rischia che alla fine i neocon ritornino sulla ribalta semplicemente perchè Ahmadinejad, Kim Jong-il e Chavez sono ancora in giro e i democratici non hanno trovato la maniera per trattarli diversamente.

23 settembre 2009

Un vertice (quasi) fallimentare

Ieri Obama, Netanyahu e Abu Mazen si sono incontrati negli Stati Uniti. Vi avevamo parlato in precedenza della possibilità che tra l'assemblea generale dell'Onu e il G-20 di Pittsburgh Obama pronunciasse un discorso "risolutivo" sul processo di pace. Non è stato così e non sarà così a breve. Ecco la sintesi dell'incontro fatta da Ha'aretz: Obama si è mostrato molto nervoso con le parti e ha avvertito che la "finestra di opportunità" si sta chiudendo. Forse però la strategia dell'amministrazione sta semplicemente mostrando la corda (ecco il riassunto di quanto fatto finora). Questa prevedeva da una parte di bloccare la crescita degli insediamenti israeliani e dall'altra di ottenere i primi gesti di riconoscimento da parte del mondo arabo. Obama però, dopo aver vinto le sue elezioni, ha perso alcune di quelle importanti in Medio Oriente: non solo in Iran è andata male ma anche in Israele si è formato un governo molto spostato a destra, il cui primo ministro ha basato la sua carriera politica sul rigetto dello Stato palestinese. Non c'è più il campo della pace israeliano da cui difendersi se si vuole bloccare il processo negoziale. Anzi, come fa notare l'editorialista Akiva Eldar, il quadro politico israeliano è ostile agli accordi: Netanyahu deve guardarsi dal movimento dei coloni e dall'estrema destra che sostiene il suo governo. I palestinesi, dall'altro lato, pagano un decennio di errori: la seconda intifada, la consegna di Marwan Bargouti agli israeliani, la corruzione e l'incapacità di rinnovare Fatah dopo la morte di Arafat e infine il colpo di Stato a Gaza che ha diviso in due i territori. Il cambiamento sta arrivando ora, forse troppo tardi: l'inclusione della nuova guardia nella leadership del partito nazionalista laico, la creazione (con l'aiuto americano) di forze di sicurezza efficienti e un debole progresso economico in Cisgiordania. L'unico lume di speranza in questo quadro è il progetto del primo ministro (della Cisgiordania) Fayyad che mira alla costruzione di strutture statali entro due anni. Chissà che i palestinesi non imparino dagli israeliani la politica dei fatti compiuti.

15 settembre 2009

L'occasione che si sta quasi sprecando

Oggi l'inviato di Obama per il Medio Oriente George Mitchell si è incontrato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Come ci spiega Ha'aretz per ora non ci sono passi in avanti: Netanyahu non vuole accettare di congelare gli insediamenti e i palestinesi pongono questa questione come pregiudiziale. L'amministrazione Obama ha ribaltato la situazione di qualche anno fa quando era il mancato riconoscimento di Israele da parte di Hamas ad impedire i colloqui. Perchè, al fondo, la questione è questa: se Netanyahu non vuole fermare le colonie è perchè non crede che uno Stato palestinese possa portare sicurezza ad Israele. Il New York Times oggi ha un editoriale molto chiaro: si sta sprecando una finestra d'opportunità sia da parte israeliana che da parte araba dove nè i sauditi nè gli egiziani fanno pressioni perchè i governi filo-occidentali della regione aprano allo Stato ebraico con gesti simbolici. Sull'Iran, dall'altro lato, Time ci racconta come l'amministrazione potrebbe stare per entrare in un cul-de-sac: minacciando le sanzioni inasprirebbe la reazione iraniana, ma in mancanza di risultati i colloqui a cui Teheran si è dichiarata aperta finirebbero per indebolire l'amministrazione sul fronte interno. Meno male per il presidente che, come ci racconta il New York Times Magazine, la lobby filo-israeliana sta cambiando: un po' meno ideologia e una generazione meno condizionata dall'olocausto forse porterà a scelte meno autolesioniste. Per il momento però, l'ora della verità si avvicina e non sembra una buona verità per l'amministrazione.

9 settembre 2009

Un altro fronte difficile: il Medio Oriente

Mentre l'America (e anche un po' il mondo) attende il discorso di stasera sulla riforma sanitaria, è bene fare il punto sulle attività dell'amministrazione sul processo di pace. E' questo uno dei pochi fronti sui quali il presidente può sperare di raggiungere qualche limitato successo che produca poi un sensibile miglioramento della posizione nella regione. Massimo Calabresi su Time ci spiega perchè Obama è così interessato a portare a casa qualche risultato: la minaccia di sanzioni contro l'Iran, nel caso piuttosto probabile che fallisca l'apertura al dialogo proposta dagli Usa, non è credibile se gli arabi filo-occidentali non la sostengono. Ma allo stesso tempo è difficile che questi paesi sostengano la politica americana se questa si dimostra inefficace nel bloccare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, una vera ipoteca contro qualsiasi speranza di nascita di uno Stato palestinese. Il quotidiano conservatore Jerusalem Post la vede in un'altra maniera: Obama si è alienato le simpatie del mainstream israeliano con la sua campagna contro gli insediamenti con il risultato che ora il ministro laburista (ma piuttosto guerrafondaio) Ehud Barak ha approvato una nuova ondata di costruzioni. Il fatto è, però, che l'asse si è veramente spostato negli Stati Uniti. Basta vedere l'editoriale di oggi del New York Times: un imprenditore palestinese spiega come la politica dei posti blocco israeliana abbia fermato lo sviluppo palestinese e che, nonostante quest'anno il PIL sia cresciuto del 7% (ritmi cinesi o indiani) è solo un rimbalzo momentaneo rispetto al meno 34% registrato dal 2000 in poi. Insomma, conclude l'editorialista-imprenditore, non esiste l'alternativa tra sviluppo economico e processo di pace. E' proprio per questo che sarà cruciale l'iniziativa americana che verrà pubblicizzata o durante il G-20 di Pittsburgh oppure all'assemblea dell'Onu: dalla velocità con cui procederà il processo di pace dipenderà in parte il negoziato con l'Iran e, a cascata, le possibilità di successo americano in Afpak.

27 agosto 2009

Un mese di tempo per il processo di pace

Questa faccia non si trova molto spesso sui nostri giornali: è quella di Salam Fayyad, primo ministro dell'ANP, o meglio dell'autorità che governa oggi la Cisgiordania, perchè Gaza è nelle mani di Hamas. Secondo il New York Times, Fayyad avrebbe preparato un piano per arrivare concretamente ad uno stato palestinese entro due anni. Secondo il Guardian invece, tra poco meno di un mese Obama farà un grande discorso sul processo di pace in cui, affiancato da Netanyahu e Abu Mazen, dirà alcune cose: gli israeliani fermano parzialmente la costruzione degli insediamenti; gli arabi stabiliscono timide relazioni commerciali con Israele; si fissa un'agenda di due anni per i colloqui di pace. Il discorso ci sarà o all'Onu oppure al G-20.
Il tutto sarebbe parte di uno scambio con Netanyahu sulla politica iraniana: le concessioni sugli insediamenti sarebbero la contropartita per un nuovo giro di sanzioni più dure contro Teheran. Netanyahu sembra che si sia mostrato più aperto nella tappa londinese, parte del suo viaggio in Europa.
Sembra però la ricetta per il prossimo fallimento: Russia e Cina non aderiranno alle sanzioni contro l'Iran; Netanyahu non propone un vero blocco ma cerca di far passare la linea della necessità di avallare la "crescita naturale" degli insediamenti; i palestinesi non possono accettare, nell'anno elettorale, l'ennesimo "processo" che non porta mai alla pace. D'altronde anche Bush aveva promesso entro il 2005 lo stato palestinese, poi aveva spostato la scadenza al 2008. Forse a decidere veramente saranno i gesti sul terreno: il processo avviato da Fayyad e magari avallato dalla "nuova guardia" di Fatah da una parte, la costruzione degli insediamenti dall'altra. E in mezzo la politica mediorientale di Obama a pezzi.

24 agosto 2009

I grattacapi del Grande Medio Oriente

Le cose non vanno tanto bene in Afghanistan che rischia di essere per Obama quello che il Vietnam fu per Johnson secondo un articolo del Corriere della Sera che riprende il New York Times. Certo, puntare su questa guerra potrebbe non essere stata una gran furbata da parte del presidente, ma era common sense anche nei think tank progressisti come si vede da questo articolo di Korb, del Center for American Progress. Ma non finisce qui: a gennaio si potrebbe tenere un referendum in Iraq che chieda il ritiro immediato del contingente americano. Tecnicamente, il quesito proporrebbe di stracciare l'accordo sullo status delle forze americane nel paese, rendendo la loro presenza illegale. Non un bel modo di realizzare quel ritiro che il presidente aveva proposto in campagna elettorale. Infine, ma potremmo continuare, c'è l'Iran: Khamenei potrebbe non essere interessato a perseguire il dialogo sul nucleare con Washington. Gli americani tra l'altro potrebbero essere indeboliti nella loro strategia da una benevolenza russo-cinese verso Ahmadinejad combinata con la scarsa voglia degli europei di applicare le sanzioni con un loro grande partner commerciale quale l'Iran è. Su tutta la politica mediorientale di Obama aleggia lo spettro del fallimento, ma potrebbe ancora provare a venirne fuori con un primo accordo sul processo di pace che dia a tutti l'illusione che le cose stanno migliorando e che sia merito suo. Sarebbe poco, ma sarebbe già un po' meglio per lui di quanto non faccia presagire la situazione attuale.

4 agosto 2009

E' estate, in Medio Oriente

Stagione di possibili guerre putroppo, raramente di vacanze. Fatah, il Movimento di Liberazione della Palestina fondato da Arafat, tiene oggi il suo congresso: è il primo da tantissimi anni e potrebbe essere l'occasione per dare una prospettiva politica al partito, moribondo da quando il suo fondatore è passato a miglior vita. La notizia però è che il documento politico non esclude ancora il ricorso alla lotta armata e non si parla di abolire la clausola favorevole alla distruzione dello Stato di Israele. Un modo per non cedere le carte migliori prima del negoziato. Sull'altro lato non ci sono notizie migliori per Obama. Yossi Alpher, uno degli analisti israeliani più acuti ed equilibrati, scrive sul Jerusalem Post che Netanyahu farebbe bene a concedere qualcosa al presidente americano sulla questione degli insediamenti: non ha senso continuare a costruirne dentro Gerusalemme se il risultato è che poi lo Stato ebraico si ritroverà al suo interno centinaia di migliaia di abitanti arabi della città piuttosto risentiti. Difficile che venga ascoltato. L'amministrazione nel frattempo continua a premere su entrambe le parti per arrivare ad un compromesso: aperture diplomatiche arabe in cambio di uno stop agli insediamenti. Un po' più in là del Medio Oriente, in Afghanistan, la notte di Kabul è stata interrotta da un bombardamento talebano: è il primo da parecchi anni e fa parte della campagna elettorale dei fondamentalisti. Se questa doveva essere la "guerra di Obama", beh, non sta andando splendidamente.

27 luglio 2009

Riecco il G2

Non ci si fa in tempo a concentrare su una cosa - la riforma sanitaria, Pelosi ripete che proverà a farla passare - che boom, ci sono novità su altri fronti. Migliorano le relazioni tra Siria e Usa, con l'inviato Mitchell che chiede a Damasco di essere coinvolta appieno nei colloqui di pace per il Medio oriente (oggi è a Tel Aviv). E soprattutto, a Washington, Obama si incontra con il vicepremier cinese Wang Qishan. In due giorni si parlerà di tutto, dalla Corea nucleare, all'ambiente. Il centro, del quale magari non sapremo tutto e subito, sarà l'economia. Gli Usa sono vitali per l'export cinese e la Cina è essenziale per sostenere il debito americano e per rifornire i consumatori Usa di merci a buon mercato (che con la crisi sono più important che mai). Robert Reich, nel suo Supercapitalism ha dedicato un passaggio interessante al consumo cinese a poco prezzo. Obama, nel suo discorso, ha spiegato quanto importante sia la Cina per gli Usa in un mondo senza frontiere come il nostro e così avevano fatto, in un articolo congiunto, il Segretario al Tesoro Geithner e Hillary Clinton. Il primo parla correntemente cinese - come il segretario al commercio, Gary Locke, americano-cinese di terza generazione. Nel loro articolo, i due pezzi da novanta dell'amministrazione spiegano che rispondere alla crisi, al riscaldamento globale e pensare un ordine mondiale sicuro sono le priorità per i due giganti. Una parola....

16 luglio 2009

La pista siriana

Frederik Hoff, un assistente dell'inviato speciale per il Medio Oriente Mitchell, è in Israele. Ufficialmente solo per preparare la nuova visita proprio di Mitchell ma la stampa specula: non è che ora Netanyahu potrebbe approfittare delle difficoltà iraniane per fare la pace con la Siria? C'è molto wishful thinking da parte americana: sono in tanti, partire dall'uomo della Brookings Martin Indyk, a sperare in un accordo con Damasco che la tiri via dall'alleanza con Teheran. Difficile che succeda. Prima di tutto Israele sta pensando di riabilitare un disegno di legge che renda un eventuale ritiro dal Golan soggetto ad approvazione popolare. In secondo luogo il viceministro degli esteri Ayalon non ha usato parole gentili: non ci sarà trattativa con questi siriani che sponsorizzano il terrorismo. In terzo luogo: i siriani chiedono garanzie sul ritiro israeliano dal Golan, quello che invece il governo vorrebbe ingessare sottoponendolo ad un referendum. Un bel rompicapo. L'amministrazione potrebbe uscirne solo "mettendo la pistola sul tavolo" cioè minacciando Israele di ritorsioni nel caso non faccia la pace con la Siria e dicendo a Damasco che è l'ultimo treno per avere quei rapporti con gli Usa a cui evidentemente aspira tanto.

3 luglio 2009

Un mese dopo il Cairo

Un mese fa Obama parlava al Cairo. Nel frattempo sono successe talmente tante cose che sembra passato almeno un anno. In primis, la rivolta in Iran seguita alle elezioni presidenziali non riconosciute come regolari dall'opposizione. Il New York Times fa il punto della situazione persiana: anche se la rivolta sembra essere stata tutto sommato domata (ma bisognerà vedere il prossimo sciopero generale) si è aperta una faglia nella società iraniana e nel clero che non si rimarginerà presto. Gli Usa possono agire in molti modi per allargarla e far prevalere gli oppositori. Ma possono, aggiungiamo noi, anche decidere che negoziare con l'Iran sul nucleare e sull'Afpak è più importante del cambiamento di regime. Per ora noi italiani giochiamo il ruolo dei falchi, alludendo ad un inasprimento delle sanzioni al quale gli americani si starebbero opponendo. In ogni caso la situazione è molto più complicata di prima. Nelle ultime ore poi è stata lanciata una notevole offensiva in Afghanistan, si dice la più grande dai tempi del Vietnam. Il New York Times ci spiega perchè, anche se dovessero vincere militarmente, gli americani si troverebbero di fronte molte difficoltà nel portare dalla loro parte la popolazione. L'impressione è che i limiti dell'elaborazione americana in politica estera si vedano ancora tutti su questo fronte dato che la risposta alle insurrezioni sembra essere sempre quella del generale Westmoreland in Indocina: "firepower". Nel frattempo Asad ha invitato Obama in Siria, chissà che il processo di pace non diventi il campionato di consolazione della politica mediorientale del presidente riservandogli più soddisfazioni sia dell'Iran che dell'Afpak.

7 giugno 2009

Il discorso di Obama e un'intervista in italiano

Qui il discorso di Obama in italiano e qui un'intervista a Olivier Roy, islamologo francese intervistato da Liberazione - c'è anche un'intervista a Gilles Kepel, ma per come è costruito il sito, è impossibile copiarla: a volte si è perdenti dentro...domani la carico.

5 giugno 2009

Obama al Cairo, the day after

Beh? Come è andato il discorso di Obama? Ecco un David Brooks dal Nyt che rimanda il tono delle parole usate da Obama allo stile della politica di Chicago, pragmatica più che altrove. Brooks è spesso critico, stavolta il discorso sembra essergli piaciuto. Dal Guardian, Ahdaf Soueif ci spiega perché l'aver messo al centro la fede (le fedi) sia, per una parte dell'auditorio - donne? giovani? laici? - una grande delusione. E' la più classica delle tensioni tra realismo e idealismo: dire in faccia tutto a tutti o non dire nulla? In fondo Obama ha detto qualcosa a molti, nominato dei problemi - il tema delle donne e quello della democrazia - in forma nuova per un leader ospite in un Paese dittatoriale. Politico ci spiega che il discorso era mirato anche a spuntare le armi di Osama, smontare alcuni luoghi comuni della retorica qaedista (la basi permanenti in Iraq e Afghanistan, ad esempio).
Qui un commento “tecnico", quello dell'ex ambasciatore in Siria e Israele Edward P. Djerejian dal council on foreign relations. E qua l'articolo di Tzipi Livni sul discorso. Una opinione furiosa? Quella di Krauthammer dal Post. L'idea sembra un po' Israele non si tocca: “L'America deve smettere di dare diktat, dice Obama - spiega il columnist - e allora perché non usa la stessa tecnica con Israele?". Abraham Yehoshua sulla Stampa, spiega invece che Obama è l'amico che lui vorrebbe al fianco. Uno che, quando fai degli errori, te lo dice. Noi siamo d'accordo con lui.

4 giugno 2009

Obama al Cairo

"E' più facile iniziare le guerre che concluderle. E' più facile dare la colpa agli altri che guardarsi dentro; vedere ciò che è diverso piuttosto che cercare nell'altro ciò che condividiamo. Ma dovremmo scegliere la strada giusta, non quella più facile. C'è una regola che sta al cuore di ogni religione - che dobbiamo fare agli altri ciò che vorremmo che loro facessero a noi. E' una fede che trascende le nazioni e i popoli (..) una fede nelle altre persone ed è quello che mi ha portato qui oggi." I prossimi anni giudicheranno se il discorso di oggi al Cairo sarà studiato sui libri di storia, come quello di Philadelphia di cui vi parlammo qui. Come altre volte Obama ha parlato di politica parlando della vita. Ma già il fatto che fosse lì, a porgere una mano al mondo islamico, era un fatto storico. Non è stata solo retorica, c'era molta politica che proviamo a leggere anche sulla base di quello che abbiamo sentito dire da parte della foreign policy community americana.
1. "Nel combattere l'estremismo violento l'Islam non è parte del problema - è una parte importante nella promozione della pace". Gli Stati Uniti vengono presentati come una nazione anche islamica. L'Islam viene reinterpretato come fonte di tolleranza e innovazione. Viene recuperata la storia dell'Andalusia e vengono citati i grandi paesi mussulmani che hanno eletto donne alla loro guida.
2. I palestinesi "soffrono umiliazioni quotidiane - grandi e piccole - causate dall'occupazione. Che non ci siano dubbi: la loro situazione è intollerabile: l'America non volterà le spalle alla legittima aspirazione dei palestinesi per la dignità, le opportunità e un proprio stato". E poi parole molto dure contro la sofferenza inflitta a Gaza e contro la colonizzazione accanto a quelle contro chi nega l'Olocausto e il diritto di Israele ad esistere.
3."Hamas ha il sostegno di alcuni palestinesi, ma anche delle responsabilità". Dopo il riconoscimento politico tuttavia vengono ripetute le solite condizioni che hanno bloccato il processo fino ad oggi. Hamas ha però finora reagito positivamente al discorso, giudicandolo un'apertura.
4. Sull'Iran si fa un importante gesto simbolico riconoscendo il ruolo Usa nel rovesciamento di un governo "democraticamente eletto", cioè quello di Mossadeq negli anni '50. La risposta al problema nucleare è il rafforzamento del regime non-proliferatorio per tutti e la possibilità di usare l'energia a scopi pacifici. Parole che potrebbero avere un impatto sulla campagna per le presidenziali iraniane.
5. "Le elezioni da sole non fanno la democrazia". Ma non solo: "Ogni nazione da vita a questo principio basandosi sulle sue tradizioni" e poi cita le democrazie asiatiche e quelle islamiche.
6. "La questione femminile non è solo un problema dell'Islam". Non è importante la lotta al velo, anzi. E' importante la lotta all'analfabetismo femminile. "Non penso che le donne debbano fare le stesse scelte degli uomini per essere uguali a loro".
7. Sulla globalizzazione:"in tutti i paesi - compreso il mio - questo cambiamento può portare paura. Paura che a causa della modernità perderemo il controllo delle nostre scelte economiche, e politiche ma soprattutto che perderemo il controllo della nostra identità".

In generale, accanto alla ripetizione di alcuni mantra (vedi il post qui sotto sul tema dell'Afghanistan e dell'Iraq) un discorso che non solo tende una mano al mondo islamico ma che esclude che l'occidente abbia il monopolio della modernità e che ridefinisce la modernità occidentale in chiave liberal. Obama infatti indica anche una serie di problemi aperti all'interno della stessa civiltà occidentale: primo fra tutti quello dell'emancipazione femminile. Infine, un discorso che può rimanere nella storia come tentativo molto ambizioso di usare l'opinione pubblica e la costruzione di consenso di massa come fattore di accellerazione della diplomazia. Parlare all'opinione pubblica mediorientale per convincere certi leader a saltare l'ostacolo. Anche qui, forse, Obama supera una volta per tutte il Novecento.

2 giugno 2009

L'Egitto e l'addio realistico ai diritti umani

Dopo la Cina - dove in questi giorni è stato il Segretario al Tesoro Geithner - la nuova tappa di un autorevole figura Usa all'estero sarà l'Egitto. Al cairo come a Pechino, difficilmente Obama potrà parlare di diritti umani. Il presidente Mubarak non è esattamente un campione e la giustificazione principale per le violazioni sistematiche è la forza dei Fratelli musulmani, gruppo fondamentalista non terroristico che se si votasse vincerebbe le elezioni a spasso. Il motivo? Corruzione dilagante, disincanto e una rete efficientissima di welfare. Proprio come Hizbullah, Hamas e Moqtada al Sadr in una parte dello sciismo iracheno. A differenza di questi gruppi, però, la fratellanza non è passata alla violenza terroristica (alcune sue frange si). L'Egtto, come tutto il mondo arabo, è insomma un difficile banco di prova: quanto dire sul tema della democrazia? E come? Tra un paio di giorni lo scopriremo. Intanto ecco un bellissimo commento di Alaa al Aswany, intellettuale egiziano di cui in molti avrete letto le interviste sui quotidiani italiani (era alla Fiera del libro di Torino). Aswany parla del paradosso del torturatore egiziano.

Obama verso il Cairo. L'intervista a Bbcnews

Ecco il link al video dell'intervista concessa a Justin Webb di Bbc. Il presidente parla di mondo arabo, Iran e altre spine nel fianco.

1 giugno 2009

Sulla strada per il Cairo

Giovedì Obama sarà al Cairo (nella foto l'università di al-Azhar) per un discorso che si preannuncia molto importante in cui si rivolgerà non solo ai leader ma anche alle opinioni pubbliche arabe. L'arguto Michael Tomasky sostiene che lì capiremo se Obama è solo un realista oppure anche un liberale internazionalista con accenni neoconservatori. In altre parole, la prova del nove sarà se utilizzerà il discorso per rilanciare la questione della democrazia oppure solo per rilanciare il processo di pace. Speriamo abbia letto questo articolo di Steven Cook, esperto di mondo arabo del Council on Foreign Relations, in cui si dimostra come l'espansione della democrazia comporti la contrazione dei veri aiuti allo sviluppo e quindi crei più danni che benefici. Abbiamo già notato come la visita di giovedì sia strana perlomeno perchè non è prevista una tappa a Tel Aviv o Gerusalemme. I rapporti con Israele non sono più quelli di una volta, ma a perderci sarebbe anche lo stato ebraico: è questa la tesi di Alon Ben-Meir del Center for Global Affairs dell'NYU. I palestinesi (più che altro ciò che rimane di Fatah) invece si spellano le mani per il nuovo presidente: leggete cosa scrive l'ex-ministro Gassan Khatib sul Financial Times. Chi per ora se la gode è Oliver North che registra già il fallimento della strategia del dialogo globale lanciata da Obama. Il ragazzo fu uno dei maggiori organizzatori dell'affare Iran-Contra. Negli anni '90 fondò la Freedom Alliance che in italiano si può tradurre anche "casa delle libertà". E non dite che vi ricorda qualcosa.

29 maggio 2009

E se il dialogo fallisse?

Il presidente Obama ha lanciato una politica estera di "diplomatic engagement": si parla con tutti quelli con cui Bush non voleva parlare perchè la situazione è grave e bisogna uscirne in maniera realistica. Cominciano però ad affiorare dei dubbi e l'evolvere della situazione non è dei migliori. Time fa il punto della situazione di potere a Washington: Dennis Ross (di cui abbiamo già parlato qui) è l'uomo che si occupa di Iran al Dipartimento di Stato. Non è un gran fautore del dialogo vero e proprio ma solo in funzione strumentale per costruire consenso verso sanzioni più severe e, chissà, magari anche un attacco militare. Almeno così aveva dichiarato ai coniugi Leverett (leggete qui il loro articolo), due che hanno lavorato all'NSC proprio sull'Iran e che, dal loro ufficio alla New America Foundation, hanno sempre propugnato un "grande accordo" con Teheran sul modello di quello fatto da Nixon con la Cina. Secondo loro Obama non sta facendo abbastanza e il risultato sarà che gli iraniani si sentiranno messi nell'angolo e faranno saltare il tavolo. Anche Newsweek ha dei dubbi: in giro per il mondo mancano gli interlocutori mentre i nemici sono sempre più forti dalla Corea del Nord all'Iran passando per Pakistan e Afghanistan. Intanto i "cattivi" potrebbero avere la loro prima vittoria già tra qualche giorno nelle elezioni libanesi (si vota lo stesso giorno delle Europee): la coalizione tra Hizbullah e i cristiani anti-americani di Aoun è data per vincente. Anche se gli accordi di Doha obbligano tutti i concorrenti a fare un governo di unità nazionale, un maggiore peso dei fondamentalisti sciiti farebbe pendere l'ago della bilancia verso Teheran e Damasco. Gli americani hanno già fatto sapere che non è detto che gli aiuti al Paese rimangano invariati. Sarebbe un po' come ammettere la propria sconfitta.

28 maggio 2009

Su Israele una sola voce a Washington

Se Bibi Netanyahu contava di usare divisioni in seno all'amministrazione per svicolare dalla pressione alla quale il suo governo è sottoposto, forse ha sbagliato indirizzo. Stanotte italiana anche Hillary Clinton ha spiegato a Israele che le colonie vanno fermate. E' la prima volta da molto tempo che viene detto in maniera tanto chiara: la nostra posizione è che ci deve essere uno stop agli insediamenti. Non un qualce stop a qualche tipo di insediamenti, ma a tutti. Ma forse è solo un modo per aiutare Mahmoud Abbas, che di guai con Hamas ne ha parecchi ed è più debole che mai, che è atteso nella capitale Usa per una visita ufficiale.

27 maggio 2009

La coppia che scoppia

Non tanto tempo fa gli Usa ed Israele erano una coppia perfetta, altro che Silvio e Veronica. Ora le cose sono cambiate: Obama ha grandi progetti per il Medio Oriente e Netanyahu si sente trascurato. La scorsa settimana si sono visti alla Casa Bianca, avrete già letto com'è andata. Quello che conta però è il cambiamento di clima nell'establishment di politica estera: in pochi a Washington sono ancora disposti a sopportare l'eccezionalità israeliana mandando in rovina il ruolo americano nella regione. Steven Cook, del think tank bipartisan Council on Foreign Relations, spiega perchè le posizioni di Netanyahu possono far deragliare il piano di Obama: non parla ancora di Stato palestinese; vuole una scadenza per i colloqui con l'Iran, cosa che li farebbe fallire da subito; "punisce" (parole testuali) la popolazione di Gaza. Se pensate che sia troppo duro, guardate cosa dicono gli altri. Cominciamo da chi è sempre stato parecchio filo-israeliano: Martin Indyk è passato dalla lobby AIPAC al think tank bipartisan Brookings. Ora scrive che Netanyahu - sugli insediamenti e sui colloqui con la Siria - sta mettendo Obama in una posizione impossibile. Conclude piuttosto duramente: "Non è il modo di costruire una nuova relazione Israelo-Americana basata sulla pace". Richard Murphy invece faceva l'Assistente Segretario di Stato, udite udite, con l'amministrazione Reagan. Senza troppi giri di parole ha detto già alcuni mesi fa che "è inevitabile" che si parli con Hamas. E non lo dice solo lui.