30 settembre 2009

Domani a tavola con l'Iran

Domani per la prima volta Usa e Iran si parleranno veramente e ufficialmente. A Ginevra si riuscono i 5 grandi del consiglio di sicurezza, più la Germania e, appunto, gli iraniani. La situazione attuale è un vero rompicapo: la soluzione militare, anche solo da parte israeliana, è impraticabile come spiega Cordesman sul Wall Street Journal; Russia e Cina non aderiranno mai al tipo di sanzioni "invalidanti" che vogliono gli Usa e cioè il boicottaggio nella raffinazione del petrolio e il divieto d'accesso ai mercati finanziari; la leadership attuale non ha molta voglia di aprire un dialogo a tutto campo, nè chi lavora per Obama sembra aver condiviso questa opzione. E' la critica dei coniugi Leverett che condussero a suo tempo le trattative per l'invasione dell'Afghanistan (fu fatta in cooperazione con Teheran): l'amministrazione non ha fatto nulla di concreto per aprire un dialogo simile a quello che Nixon ebbe con la Cina. Bisognava per esempio sospendere i programmi a favore del cambio di regime a Teheran, tuttora finanziati da Washington. Rischia che alla fine i neocon ritornino sulla ribalta semplicemente perchè Ahmadinejad, Kim Jong-il e Chavez sono ancora in giro e i democratici non hanno trovato la maniera per trattarli diversamente.

29 settembre 2009

Germania, Italia, America

Sul blog Italia2013 un nostro appunto sulle elezioni tedesche, dal titolo "In Italia tutti hanno vinto le elezioni tedesche". Riguarda anche l'America, l'unico paese dove è arrivato un leader post-terza via, quindi vincente.

24 settembre 2009

Sono solo simboli, certo, ma il consiglio di sicurezza Onu...

L'unico organo davvero decisionale dimorato al Palazzo di vetro di New York ha adottato una risoluzione che la Bbc chiama storica (alla pagina trovate uno speciale, con diverse cose tra cui i filmati degli interventi di diversi leader): si tratta di un invito generale e generalizzato al disarmo nucleare. Il Consiglio era presieduto da...indovinate un po'? Il presidente Obama. Il passo è solo simbolico, ma che Russia, Cina e Stati Uniti votino per il disarmo è davvero una frattura storica. L'Onu, che è un edificio anni 60, con una gestione e un'organizzazione anni 60, per una volta manda messaggi importanti dalla sua sede decisionale. Normalmente sono le singole agenzie sui temi specifici o l'Assemblea a votare mozioni, non il consiglio.
Possiamo sicuramente sbagliare, ma il fatto che all'Onu sia stata spedita Susan Rice, la consigliera in politica estera più vicina a Obama già durante la campagna elettorale, era già un segnale che l'Onu poteva e doveva, nelle intenzioni del presidente, acquisire maggior centralità specie per quelle grandi sfide planetarie che converrebbe a tutti affrontare assieme: povertà, ambiente, pandemie, disarmo. L'adozione della risoluzione è anche il segno che Rice sta lavorando bene e che con la Russia, sulla questione nucleare, gli Usa stanno facendo un lavoro di prospettiva. Altro argomento, oggi all'Onu sarà divertente: parlano Chavez, Nethanyau, Shakasvili e il presidente iracheno Talabani.

23 settembre 2009

Senato, presto si torna a quota 60

Il Senato del Massachussets ha smentito una sua legge di qualche anno fa, autorizzando il governatore Deval Patrick a nominare il successore di Ted Kennedy. All'epoca della vecchia legge il governatore dello Stato era repubblicano (ricordate il mormone Mitt Romney candidato alle primarie del GOP?) e i democratici temevano in un colpo di mano. Adesso Patrick dovrà scegliere a chi assegnare un posto ambitissimo e un seggio piuttosto sicuro da guadagnare quando tra un anno si voterà nel mezzo termine. L'ultimo nome è Michael Dukakis, già governatore e già candidato presidente sconfitto da Bush sr.
L'importanza della lege risiede nella possibilità, per i democratici, di far passare alcune leggi importanti senza bisogno di nessun voto repubblicano. Il caso della riforma sanitaria è il primo. Certo, prima dovranno mettersi d'accordo tra di loro.

Afghanistan, si cambia?


Il New York Times pubblica un articolo nel quale si segnala la possibilità che gli Usa cambino drasticamente strategia nella guerra afghana. Un cambio c'è già stato nei mesi passati, dopo l'offensiva anti-talebana e la scelta di spostare le truppe verso le zone abitate, per proteggere quelle, anziché incalzare gli studenti di religione nelle loro valli montane. Il generale McCrystal ha anche chiesto più attenzione ai rapporti con i civili (una nuova forma di relazione con la società, che serva a reneder meno odiosa la presenza straniera: la classica ricetta dei contingenti italiani). Oggi però si parla di qualcosa di davvero nuovo. Il Nyt dice sia un'idea di Joe Biden: meno truppe, dedite a dare la caccia ai gruppi legati ad al Qaeda. E che i talebani e l'Afghanistan si fottano. Ovvero, torniamo alla natura originaria della presenza Usa laggiù. Sarebbe molto popolare, negli Usa e altrove, si risparmierebbero molti soldi e vite umane...ma, con la situazione regionale così cambiata dal 2001 ad oggi, possono gli Usa permettersi di non rimanere in quel quadrante della Terra? Sarà interessante vederlo. Comunque non sarà una scelta dei prossimi giorni. Aspettatevi scintille con il Pentagono e i generali. “Maledetti colletti bianchi di Washington", imprecava John Wayne ne "I berretti verdi".

Un vertice (quasi) fallimentare

Ieri Obama, Netanyahu e Abu Mazen si sono incontrati negli Stati Uniti. Vi avevamo parlato in precedenza della possibilità che tra l'assemblea generale dell'Onu e il G-20 di Pittsburgh Obama pronunciasse un discorso "risolutivo" sul processo di pace. Non è stato così e non sarà così a breve. Ecco la sintesi dell'incontro fatta da Ha'aretz: Obama si è mostrato molto nervoso con le parti e ha avvertito che la "finestra di opportunità" si sta chiudendo. Forse però la strategia dell'amministrazione sta semplicemente mostrando la corda (ecco il riassunto di quanto fatto finora). Questa prevedeva da una parte di bloccare la crescita degli insediamenti israeliani e dall'altra di ottenere i primi gesti di riconoscimento da parte del mondo arabo. Obama però, dopo aver vinto le sue elezioni, ha perso alcune di quelle importanti in Medio Oriente: non solo in Iran è andata male ma anche in Israele si è formato un governo molto spostato a destra, il cui primo ministro ha basato la sua carriera politica sul rigetto dello Stato palestinese. Non c'è più il campo della pace israeliano da cui difendersi se si vuole bloccare il processo negoziale. Anzi, come fa notare l'editorialista Akiva Eldar, il quadro politico israeliano è ostile agli accordi: Netanyahu deve guardarsi dal movimento dei coloni e dall'estrema destra che sostiene il suo governo. I palestinesi, dall'altro lato, pagano un decennio di errori: la seconda intifada, la consegna di Marwan Bargouti agli israeliani, la corruzione e l'incapacità di rinnovare Fatah dopo la morte di Arafat e infine il colpo di Stato a Gaza che ha diviso in due i territori. Il cambiamento sta arrivando ora, forse troppo tardi: l'inclusione della nuova guardia nella leadership del partito nazionalista laico, la creazione (con l'aiuto americano) di forze di sicurezza efficienti e un debole progresso economico in Cisgiordania. L'unico lume di speranza in questo quadro è il progetto del primo ministro (della Cisgiordania) Fayyad che mira alla costruzione di strutture statali entro due anni. Chissà che i palestinesi non imparino dagli israeliani la politica dei fatti compiuti.

22 settembre 2009

E venne anche il momento del clima

All'assemblea Onu si discute di questo. La Cina sembra pronta a discutere e l'India a parlare di tagliare le proprie emissioni - pur senza firmare un accordo internazionale. Qui l'ottima e informata cronaca Bbc. Le posizioni, forse, si avvicinano ed è un bene per tutti noi. Nella seconda settimana di dicembre, a Copenhagen si terrà la conferenza mondiale. In questi giorni si discute all'Onu. Qui il discorso di Obama sul clima. Il presidente ha il problema di far approvare una buona legge al Congresso. Un'altra volta. Ma non era un repubblica presidenziale quella Usa? E non era il modello efficiente per eccellenza?

17 settembre 2009

Afghanistan, sei morti e una discussione che non c'è mai stata


La notizia di oggi è che, siccome il nostro esercito occupa un Paese nel quale sul 90% del territorio opera una guerriglia nemica, questa ha fatto sei morti e quattro feriti tra i soldati italiani. E' una bruttissima notizia, come tutte quelle che riguardano le guerre. Da stasera sentiremo parlare di eroi, di assassini, di necessità di rimanere (La Russa) e di necessità di pensarci (Calderoli). Oppure di andarsene senza se e senza ma (la sinistra)....Il Pd non dirà quasi nulla, oppure tutte queste cose assieme.
Quel che nessuno dirà e che nessuno sa è cosa stia capitando in Afghanistan. I nostri giornalisti sono sempre embedded e ci mostrano: a) corse sulle jeep in perlustrazione b) soldati che fraternizzano con gli afghani c) funzionari locali che dicono che siamo tanto bravi. Eppure oggi ci sono sei morti e nessuno, ma proprio nessuno è in grado di dire come uscire, a che punto, perché e con quali risultati. A differenza che negli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, ci si divide urlando, ma non si analizzano le ragioni di un evidente fallimento strategico e politico. Da noi non si è parlato del governo Karzai, dell'oppio, del processo politico ed elettorale in tilt, della riorganizzazione dei talebani, della loro forza nel reclutare anche non fanatici, proprio a causa di una presenza straniera invadente e dell'arroganza diffusa dei funzionari di un governo che appare piuttosto un protettorato. Le soluzioni non sono semplici. Qui un documento semi riservato dell'amministrazione Obama su priorità e strumenti di valutazione della situazione. Le priorità: "disrupting terrorist networks in Afghanistan and especially Pakistan, working to stabilize Pakistan, and working to achieve a host of political and civic goals in Afghanistan." Se noi siamo li per quello sarà giusto parlarne e capire come. Oppure continueremo a rispondere a Washington mandando dieci soldati in più, ma senza farlo sapere all'opinione pubblica. L'Afghanistan non è la Crimea (dove Cavour mandò a morire soldati in cambio di un posto alla conferenza di pace), servono idee, interventi civili e franchezza con l'opinione pubblica italiana che, come rilevavano i Trasatlantic trends 2009 la settimana scorsa, è stufa di una guerra nella quale facciamo finta di non essere.
Quella qui sopra è una mappa dell'Afghanistan, basta scorgerla per capire la situazione. Volete guardare com'è cambiata la situazione? Andate sul sito dell'Internazional council on security & developement a questa pagina.

Via lo scudo antimissile. Addio guerra fredda?

La Casa Bianca ha annunciato che non piazzerà le sue batterie anti missile in Repubblica Ceca e Polonia. La mossa si può interpretare in diversi modi, probabilmente tutti veri. Qui la conferenza stampa al Pentagono.
1. Il capo del Pentagono Gates sta rivedendo l'organizzazione delle forze armate Usa: meno armi fine di mondo, più contronsurrezione. Ecco che, in un anno di ristrettezze economiche, lo scudo perde di interesse.
2. Gli Usa hanno disperato bisogno di Mosca nella partita iraniana e un poco anche in Afghanistan. Dopo aver siglato il patto per la riduzione delle armi nucleari, ecco un nuovo segnale distensivo nei confronti del Cremlino.
3. Tra i due Paesi la tensione è sulla Georgia e Ossezia. Ecco che un inutile scudo ai confini dell'ex blocco sovietico non fa che aumentare la tensione nell'area senza essere utile a nulla (salvo voler tornare alla politica del riarmo in competizione con la Russia, ma non avrebbe senso per varie ragioni). A proposito di Georgia, per capire che il luogo è diventato importante a causa di oleodotti e gasdotti che ci passano, basta guardare i giornali economici. C'è una quantità enorme di pubblicità su i nuovi distretti industriali, i tax breaks, etc.
4. L'Europa, specie quella dell'est, non è più il centor del mondo: perché mettersi a fare a braccio di ferro in un punto inutile del pianeta? A questo proposito: chi sarà davvero scontento saranno i governi polacco e ceco, disperatamente alla ricerca di un protettore anti-russo e incapaci - non del tutto a torto - di scrollarsi di dosso l'idea che Mosca abbia comunque un'attitudine espansia verso le sue ex colonie.
La questione è desitnata a infuocare il dibattito sulla politica estera: i nostalgici della Guerra fredda e i conservatori faranno scintille. Pensate anche a chi è, in campo democratico a gestire la Georgia: il vecchio Biden.

15 settembre 2009

L'occasione che si sta quasi sprecando

Oggi l'inviato di Obama per il Medio Oriente George Mitchell si è incontrato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Come ci spiega Ha'aretz per ora non ci sono passi in avanti: Netanyahu non vuole accettare di congelare gli insediamenti e i palestinesi pongono questa questione come pregiudiziale. L'amministrazione Obama ha ribaltato la situazione di qualche anno fa quando era il mancato riconoscimento di Israele da parte di Hamas ad impedire i colloqui. Perchè, al fondo, la questione è questa: se Netanyahu non vuole fermare le colonie è perchè non crede che uno Stato palestinese possa portare sicurezza ad Israele. Il New York Times oggi ha un editoriale molto chiaro: si sta sprecando una finestra d'opportunità sia da parte israeliana che da parte araba dove nè i sauditi nè gli egiziani fanno pressioni perchè i governi filo-occidentali della regione aprano allo Stato ebraico con gesti simbolici. Sull'Iran, dall'altro lato, Time ci racconta come l'amministrazione potrebbe stare per entrare in un cul-de-sac: minacciando le sanzioni inasprirebbe la reazione iraniana, ma in mancanza di risultati i colloqui a cui Teheran si è dichiarata aperta finirebbero per indebolire l'amministrazione sul fronte interno. Meno male per il presidente che, come ci racconta il New York Times Magazine, la lobby filo-israeliana sta cambiando: un po' meno ideologia e una generazione meno condizionata dall'olocausto forse porterà a scelte meno autolesioniste. Per il momento però, l'ora della verità si avvicina e non sembra una buona verità per l'amministrazione.

14 settembre 2009

Did you say regole per la finanza?

Nel week-end i quotidiani Usa hanno celebrato un anno dal dallimento di Lehman brothers. Il 15 settembre può essere considerato una data simbolica per la crisi 2008-2009 e i media più importanti hanno dedicato parecchio spazio alla ricostruzione delle vicende, sottolineando come, poco fosse cambiato. Dove sono andate a finire le riforme? Allora è vero che a Wall street non cambia niente! Sono stati i commenti di tutti o quasi. Ecco un LA Times, ed ecco tre fantastiche grafiche del New York Times, la prima su dove sono andati i soldi pubblici spesi per salvare le imprese, una sulle proposte di riforma e la terza, la più bella, sulle dimensioni delle banche nel corso di quest'anno (alcune sono scomparse, altre sono quasi uguali ad un anno fa, grazie all'intervento pubblico). Oggi, non proprio a sorpresa, Obama è andato a Wall street a parlare di regole. Il solito bel discorso, niente retorica contoro la cupidigia, ma un appello a Wall street: partecipate anche voi al progetto riformatore, non speculate sull'oggi, perché la prossima volta non interverremo. E poi una serie di proposte chiare sul controllo, la capitalizzazione, la trasparenza verso i consumatori, gli standard internazionali. C'è grande dibattito sul potere della Federal reserve. Non chiedeteci le nostra, per adesso non ne abbiamo una. Qui il testo del discorso, qui il video.

12 settembre 2009

Toh, chi si rivede

Il governatore del New Mexico, Bill Richardson avrebbe dovuto essere tra i pezzi pregiati dell'amministrazione Obama. Poco dopo essere stato nominato, era stato incriminato per un affare di soldi elettorali (o simili). Ieri è stato prosciolto, ma il suo posto a Washington nel frattempo è stato occupato. Richardson è stato tra i primi sostenitori importanti del presidente durante le primarie, è governatore di uno Stato conquistato dai democratici, è un latino ed uno dei migliori diplomatici su piazza. Lo stile è quello Carter, posti difficili, gatte da pelare, conoscenza dei meccanismi di altri posti (è stato ambasciatore all'Onu). Pochi giorni fa l'archivio fotografico Reuters mostrava delle sue foto a La Havana. Ufficialmente un viaggio per promuovere i prodotto agricoli del New Mexico...ma siamo seri. Nella foto, è addirittura con il diavolo in persona. Richardson sta forse lavorando su Cuba e visto che nel suo Stato si vota nel 2010, chissà che non finiscano per trovargli un posto a DC.

10 settembre 2009

Vengono anche loro?

Sabato i nostri affezionati lettori avranno l'ultima possibilità di seguire una presentazione del nostro libro "come cambia l'America". Si va a Como ospiti della manifestazione Parolario. L'appuntamento è alle 17 in piazza Cavour. Da Milano è praticamente ad un tiro di schioppo. Non fate che poi non venite e ve ne pentite.

Commenti americani

La migliore sintesi del discorso obamiano ci sembra, per ora, quella di David Corn su Mother Jones. Se avete poco tempo per andarvi a guardare la stampa Usa, prendetevi questa.

Il quesito finale di Corn è quello che ci poniamo tutti: può un dicorso cambiare il corso di un processo legislativo complesso dove tutti si sono già posizionati dentro le proprie trincee? L'intervento di Obama era diretto all'opinione pubblica (soprattutto a quella più speventata dall'idea di un cambiamento dello status quo) e ai Congressmen; adesso va misurata quanto l'abilità retorica di Obama abbia prodotto in termini di consensi (partirà l'ondata di sondaggi per vedere quanto Obama riesce a spostarne) e quanto, soprattutto, Obama e i suoi uomini sapranno fare nei corridoi del Congresso per persuadere, minacciare, convincere, aggredire.Per vincere, insomma, ben sapendo che il sistema istituzionale americano è una via di mezzo tra Bisanzio e il MedioEvo europeo dei principi e delle gilde. Intanto la Casa Bianca, contemporaneamente al discorso del presidente, ha articolo una sua proposta - ancora piuttosto generica, ma sua - di riforma. In molti chiedevano che il presidente fornisse questo canovaccio. Lo trovate qui.

Cosa ha detto Obama al Congresso

Ecco una breve sintesi del piano descritto da Obama al Congresso ieri sera. Sulla questione più controversa, la creazione di un'assicurazione pubblica che competa con quelle private, il presidente ha detto che si rivolgerebbe solo a chi non è oggi assicurato e che in ogni caso non bisogna essere ideologici: se c'è un altro strumento che può conseguire lo stesso risultato è benvenuto. Ha poi accettato l'idea, che era di John McCain, di creare una "borsa delle assicurazioni" dove individui e imprese possano contrattare delle polizze più convenienti. Il tutto si reggerebbe sull'obbligatorietà dell'assicurazione sanitaria, come da noi per le automobili: chi non se la può permettere però avrebbe uno sgravio fiscale da parte dello stato. Infine una serie di misure che lui ha definito costituiscono l'80% della riforma e che sostanzialmente garantirebbero i cittadini dagli abusi tipici del sistema attuale: l'impossibilità di negare la copertura in base a condizioni pre-esistenti nel paziente; un limite alle spese che i clienti debbono sobbarcarsi da soli anche quando coperti da polizza; l'obbligatorietà della copertura delle cure preventive come la mammografia o la colonscopia. Questo piano, secondo Obama, costerebbe 900 miliardi di dollari in 10 anni: meno delle guerre o dei tagli alle tasse per i ricchi fatti da Bush, come Obama ha fatto notare. Questi soldi verrebbero fondamentalmente da 3 fonti: la riduzione degli sprechi nei programmi medicare e medicaid; la lotta alle cattive pratiche e ai costi legali legati alla professione medica; una tassa sulle pratiche più costose delle assicurazioni private. Per chiudere, un richiamo tipicamente obamiano alle radici storiche americane: la riforma non è "un-american", è anzi nel solco della storia del paese. Prima di tutto perchè è il completamento del disegno del New Deal e della Great Society, tempi nei quali i membri del Congresso "capirono che i pericoli di uno stato troppo invadente corrispondono a quelli di uno stato che lo è troppo poco". In secondo luogo perchè "c'è l'idea in questo paese che il duro lavoro e la responsabilità devono essere ripagati in qualche misura dalla sicurezza e dalla giustizia". La commissione Finanze del Senato, l'unica a non aver ancora concluso i lavori, ha promesso che lo farà entro la prossima settimana.

Non sono il primo a promuovere questa causa, sono determinato a essere l'ultimo


I titoli sembrano essere positivi (anche Politico, che non è esattamente liberal). Obama ha parlato 47 minuti ed è stato interrotto da un deputato republicano della South Carolina che ha gridato you lie. Per come è ridotta lo Stato del Sud, feudo del G.O.P., farebbe bene a stare zitto. Obama ha sfidato il Congresso, spesso incapace di agire, paralizzato dai suoi veti e non popolare tra gli americani. Funzionerà lo stratagemma? Sarà stato capace di convincere la middle class spaventata dalle tasse e gli anziani impauriti dall'idea di perdere la loro copertura sanitaria? Ecco il discorso, più tardi le reazioni.

9 settembre 2009

Un altro fronte difficile: il Medio Oriente

Mentre l'America (e anche un po' il mondo) attende il discorso di stasera sulla riforma sanitaria, è bene fare il punto sulle attività dell'amministrazione sul processo di pace. E' questo uno dei pochi fronti sui quali il presidente può sperare di raggiungere qualche limitato successo che produca poi un sensibile miglioramento della posizione nella regione. Massimo Calabresi su Time ci spiega perchè Obama è così interessato a portare a casa qualche risultato: la minaccia di sanzioni contro l'Iran, nel caso piuttosto probabile che fallisca l'apertura al dialogo proposta dagli Usa, non è credibile se gli arabi filo-occidentali non la sostengono. Ma allo stesso tempo è difficile che questi paesi sostengano la politica americana se questa si dimostra inefficace nel bloccare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, una vera ipoteca contro qualsiasi speranza di nascita di uno Stato palestinese. Il quotidiano conservatore Jerusalem Post la vede in un'altra maniera: Obama si è alienato le simpatie del mainstream israeliano con la sua campagna contro gli insediamenti con il risultato che ora il ministro laburista (ma piuttosto guerrafondaio) Ehud Barak ha approvato una nuova ondata di costruzioni. Il fatto è, però, che l'asse si è veramente spostato negli Stati Uniti. Basta vedere l'editoriale di oggi del New York Times: un imprenditore palestinese spiega come la politica dei posti blocco israeliana abbia fermato lo sviluppo palestinese e che, nonostante quest'anno il PIL sia cresciuto del 7% (ritmi cinesi o indiani) è solo un rimbalzo momentaneo rispetto al meno 34% registrato dal 2000 in poi. Insomma, conclude l'editorialista-imprenditore, non esiste l'alternativa tra sviluppo economico e processo di pace. E' proprio per questo che sarà cruciale l'iniziativa americana che verrà pubblicizzata o durante il G-20 di Pittsburgh oppure all'assemblea dell'Onu: dalla velocità con cui procederà il processo di pace dipenderà in parte il negoziato con l'Iran e, a cascata, le possibilità di successo americano in Afpak.

Provaci ancora Barack

Non è la prima volta che Barack Obama prova a riformare la sanità. Era il 2004 (pensate, solo 5 anni fa) e l'attuale presidente era solo un senatore dello stato dell'Illinois, dove tra l'altro è ambientato ER. Il Washington Post ci racconta oggi con un lungo articolo come andò allora: Obama mise su una coalizione molto ampia come si fa spesso in America. L'obiettivo iniziale era un sistema quasi all'Europea in cui tutti sarebbero stati coperti. I costi piuttosto elevati e le forti resistenze delle assicurazioni furono da subito un problema che Obama cercò di risolvere con una trattativa. Trattò così a lungo e così approfonditamente che la legge che fu approvata non istituiva nessun nuovo sistema ma solo una commissione che avrebbe studiato il problema. Questa stilò un rapporto in cui consigliava di rendere obbligatoria l'assicurazione (come da noi per le auto) ma di fornire sussidi a chi non poteva permettersela. Nessuna assicurazione pubblica insomma e d'altronde Obama aveva accettato che nella commissione fossero presenti anche i rappresentanti di quelle private. Inutile dire che quel sistema non è mai entrato in vigore in Illinois anche a causa dei rovesci giudiziari che colpirono il governatore Blagojevich. Una storia da tenere a mente in vista del discorso che il presidente farà stasera sulla sanità.

8 settembre 2009

Un nuovo alleato sulla riforma sanitaria

Ecco il testo dell'intervista concessa da Bill Clinton a Esquire nella quale l'ex presidente difende la public option, sostiene che Obama sta facendo bene e che i democratici devono scaricare i repubblicani e tirare diritti per ottenere una riforma qualsiasi senza preoccuparsi troppo del budget. Su questo, ma ho perso il link, sul New York Times di domenica Robert Reich, ex segretario al lavoro di Bill e oggi professore di economia a Berkeley, recensiva un libro di storia della riforma sanitaria nel quale si spiega che nessun presidente ha mai tenuto conto del fattore risorse. Prima si fa la legge che cambia la società nel profondo, poi si pensa ai soldi.

Obama, la sanità, gli anziani e il voto del 2010

Se cercate una spiegazione all’impasse politico che ha attanagliato l’amministrazione Obama per tutta l’estate, guardate i sondaggi per il governatore della Virginia. O per i posti in Congresso del Nevada e negli altri Stati tradizionalmente repubblicani o moderati che il presidente ha portato ai democratici nel novembre del 2008. Senza che i repubblicani abbiano fatto nulla per guadagnare terreno, il pendolo punta dalla parte del partito dell’elefante. Un fatto fisiologico dopo una vittoria tanto grande come quella di Obama, ma andatelo a spiegare ai senatori e rappresentanti che se sbaglieranno voto sulla riforma sanitaria rischiano di restare a casa. Per carità, non è tutta qui la difficoltà del re degli oratori, ma l’agenda politica di ciascun presidente non può fare a meno di giocare le partite più difficili nei momenti in cui si è abbastanza lontani dalle elezioni. E in questa estate del 2009, le lancette dell’orologio si avvicinano in maniera pericolosa alla distanza simbolica di un anno dal voto di mezzo termine (novembre 2010).
E’ per questo che il presidente aveva marcato stretto la leadership parlamentare del suo partito perché approvasse la riforma sanitaria prima dell’estate ed è per questo che domani si presenterà davanti ad una sessione bicamerale del Congresso per parlare della legge più difficile da far approvare al Congresso degli Stati Uniti d’America. (per continuare clicca qui)

Ritorno ai comizi, stavolta per la riforma

Domani Obama parlerà al Congresso riunito in sessione bicamerale. Ieri però è andato a fare un comizio in Ohio (qui il video e qui una sintesi e l'articolo di Politico) ove ha insistito molto sulla crisi e le misure approvate (era il Labour day) e sulla riforma sanitaria. Il presidente ha fatto molta retorica anti poteri forti e repubblicani e ribadito la sua preferenza per la public option. Ma senza andare a fondo e lasciarci capire esattamente cosa dirà a rappresentanti e senatori. Obama parla a una platea sindacale e sembra un campione liberal. La domanda è: che strategia sta giocando? Potrebbe cercare di infiammare la platea e poi far passare un copromesso, oppure forzare. Il Nyt ci racconta che c'è un testo redatto dal senatore Baucus (Montana, democratico) che contiene alcune cose importanti ma dove la public option è assente. Aspettiamo e vedremo.

7 settembre 2009

In Afghanistan non squillano i telefoni

Ricordate questo spot di Hillary Clinton durante la campagna per le primarie? Un telefono squillava alle 3 del mattino e doveva esserci un presidente pronto a prendere le decisioni difficili, Hillary era in grado, Barack no. Ora lui fa il presidente e lei la Segretaria di stato ma il problema è un altro: come scrive giustamente lo storico Andrew Bacevich sul Los Angeles Times, la questione non sono le crisi improvvise ma quelle che, come l'Afghanistan, peggiorano lentamente di giorno in giorno senza che la presidenza sappia farci granchè. Bacevich propone realisticamente di cominciare ponendosi una domanda diversa dal classico "come vinciamo" e cioè: quali alternative abbiamo alla guerra per perseguire i nostri limitati interessi nazionali in questo paese? Intanto, continuano i conteggi elettorali e si trasformano in una triste gag: come segnala il New York Times, ci sarebbero molte urne finte in giro per il Paese piene di voti per Karzai. Certo se l'attuale presidente vincesse leverebbe parecchie castagne dal fuoco agli americani e a noi.

6 settembre 2009

Anche i lobbisti piangono


La crisi colpisce anche il settore delle lobby, che nel 2008 aveva assorbito ben 3,3 miliardi di dollari, più del doppio del decennio precedente. Sono soldi che pesano e hanno pesato sempre di più, quando si analizza la politica americana bisognerebbe ricordarsene più spesso. La (buona) notizia che ci da oggi il Washington Post è che per la prima volta i soldi spesi per fare lobby sono diminuiti del 10% e che ci sono più di 2mila lobbisti in meno a Washington - non bisogna dimenticare che è un lavoro legale, per il quale ci si registra. Un po' è la crisi ma un po' è che semplicemente sta cambiando la natura del lobbying: si fanno più spot in tv, si creano più campagne "dal basso" e tutto ciò non viene registrato dall'ufficio del Congresso che aiuta a compilare i grafici che vedete sopra. Per esempio 75 milioni di dollari sono stati spesi finora in pubblicità televisiva solo sul tema della sanità. E poi alcune società non ci sono più (la Lehman) o altre sono parzialmente sotto controllo governativo come quelle del settore automobilistico oppure assicurativo. La parte del leone, nonostante il calo, la fa ancora il settore sanitario dove si spendono comunque più di 200 milioni in un solo trimestre.

Crisi e G20: un po' di dibattito economico


Non siamo stati troppo attivi questa settimana e ci sarebbero molte cose da dire. Essendo domenica, partiamo da lontano. Il G20 di Pittsburgh si avvicina e ieri si è riunito il vertice dei ministri finanziari. In fondo siamo ancora in piena crisi e, nonostante i segnali positivi degli indicatori classici, la gente vive ancora molto peggio di due anni fa. Al G20 si discuteva del come affrontare il futuro prossimo e dotare il mondo di sistemi che riducano l'effetto delle crisi e/o impediscano alla finanza di esagerare nel rischiare i soldi dei risparmiatori. Le divisioni sono diverse, ma sembra che per adesso sia passata la linea Geithner: più regole per le banche, necessità di tenere più soldi in cassaforte (quanto presti/investi rispetto a quanto davvero hai in cassa?). L'Europa vuole regole per i bonus e qualcosa otterrà. India, Cina e Brasile vogliono pesare di più in Fmi e Bm. Anche per loro andrà bene.
Tornando a parlare di crisi e ad un anno dalla fase di panico (Lehman falliva il 15 settembre) ecco l'ampio articolo di Paul Krugman desitinato a far discutere. Perché gli economisti non ci hanno capito niente? E' una domanda su cui ha scritto a lungo Martin Wolf del Financial Times, convinto che la crisi sia peggio di come ci si racconta. Krugman coglie l'occasione per criticare una scienza economica fatta di modelli e incapace di guardare a quanto succede intorno. Il duello è vecchio: Chicago boys contro Keynes, con il pendolo che la crisi ha fatto oscillare verso Keynes. Anche l'Economist ha dedicato due ampi articoli teorici al tema (qui il link al primo, al secondo, sulla finanza, ci si arriva da li) . Roba un po' difficile ma di grande interesse. Qua un mio ben più mediocre articolo che riassume cose dette dagli economisti a Cernobbio e altrove. Quest'anno più critici del monetarismo che in passato gli ospiti.

3 settembre 2009

Un PD che vince (e i problemi per Obama)

11 anni fa alcuni fuorisciti dal Partito LiberalDemocratico (LDP, centrodestra, al governo per 55 anni) si unirono ad alcuni ammiratori nipponici del nostro Ulivo per fondare il Partito Democratico del Giappone. Poco a che vedere con il nostro PD, tanto che la stampa informata definisce il DPJ come un partito centrista e basta.
Uno dei migliori conoscitori italiani del Giappone, Francesco Sisci, spiega le implicazioni interne ed internazionali di questo cambio di governo a Tokyo: mentre sul fronte interno si tratterà di scrivere un nuovo patto sociale (anche il Giappone, tra l'altro, è afflitto dal precariato su larga scala), su quello esterno si tratta di venire a patti con il nuovo ruolo della Cina su scala asiatica. Il nuovo governo di Tokyo punta quindi a ricostruire una dimensione continentale e a fare da ponte tra Obama e la Repubblica Popolare. Per ora ci si muove con poca esperienza, basta leggere la cronaca dei primi atti di politica estera di Hatoyama, il futuro premier. In discussione il rapporto con gli Usa ma, in prospettiva, un Giappone di nuovo dotato di un progetto non farebbe che comodo all'amministrazione. E poi dei democratici che vincono non si trovano mica dappertutto: se ci vogliono 11 anni dalla fondazione vuol dire che il PD italiano può farcela nel 2018.

1 settembre 2009

Quante truppe per kabul...seri dubbi alla Casa Bianca

Ieri il generale mcChrystal, comandante a kabul, ha prodotto un rapporto che individua alcuni problemi, modifica le priorità e consiglia un nuovo atteggiamento alle truppe che lui stesso comanda. Molte cose sensate (più aiuti, meno bombardamenti, più vicinanza con la popolazione) e un vuoto. Il generale non chiede più truppe. Oggi scopriamo il perché, alla Casa Bianca speravano che il consenso sulla guerra afghana sarebbe rimasto inalterato, ma stanno scoprendo che le cose non filano liscie. Che fare? Evitare di prendere impegni. Ieri il conservatore George Will, sul Washington Post chiedeva di lasciare il Paese, continuare a bombardare e a mandare truppe speciali e spie al confine. Il modo perfatto per nutrire al Qaeda e riperdere l'Afghanistan. Gli risponde Bill Kristol, stessa parrocchia, dicendo No way.
Il problema sembra essere aperto anche alla Casa Bianca. Ecco una parte del nio articolo di domani su Liberazione, le notizie interessanti vengono da qua.
La pressione per la riforma sanitaria e il calo dei consensi, e la percezione che la guerra afghana (o la lotta al terrorismo) non siamo più nella testa degli americani, rende più pesante l’aria anche alla Casa Bianca. Il vicepresidente Biden, che è una vecchia volpe di Washington, sarebbe preoccupatissimo. Alcuni alti funzionari a lui vicini, parlando anonimamente con una reporter della <+Cors>McClatchy <+Tondo>- compagnia che pubblica diversi giornali negli Usa - hanno spiegato che alla Casa Bianca «credevano che avrebbero avuto un ampio sostegno popolare» e che il vicepresidente sia convinto che senza quello, non ci si può impegnare per altri soldati per un periodo non definito e sicuramente lungo. Il fatto che nei rapporti consegnati l’altroieri dal comandante in Afghanistan McChrystal non ci fosse la richiesta di un aumento di truppe è il frutto di una richiesta della Casa Bianca. L’invio precedente di truppe, collegato alle elezioni, era stato più facile da far digerire, era collegato ad una scadenza. Ma adesso? Dall’amministrazione fanno sapere che nei prossimi giorni partirà un processo di revisione della situazione che coinvolgerà tutte le figure chiave della politica estera e militare Usa. Poi Obama dovrà prendere delle decisioni. Difficili.