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24 agosto 2009

I grattacapi del Grande Medio Oriente

Le cose non vanno tanto bene in Afghanistan che rischia di essere per Obama quello che il Vietnam fu per Johnson secondo un articolo del Corriere della Sera che riprende il New York Times. Certo, puntare su questa guerra potrebbe non essere stata una gran furbata da parte del presidente, ma era common sense anche nei think tank progressisti come si vede da questo articolo di Korb, del Center for American Progress. Ma non finisce qui: a gennaio si potrebbe tenere un referendum in Iraq che chieda il ritiro immediato del contingente americano. Tecnicamente, il quesito proporrebbe di stracciare l'accordo sullo status delle forze americane nel paese, rendendo la loro presenza illegale. Non un bel modo di realizzare quel ritiro che il presidente aveva proposto in campagna elettorale. Infine, ma potremmo continuare, c'è l'Iran: Khamenei potrebbe non essere interessato a perseguire il dialogo sul nucleare con Washington. Gli americani tra l'altro potrebbero essere indeboliti nella loro strategia da una benevolenza russo-cinese verso Ahmadinejad combinata con la scarsa voglia degli europei di applicare le sanzioni con un loro grande partner commerciale quale l'Iran è. Su tutta la politica mediorientale di Obama aleggia lo spettro del fallimento, ma potrebbe ancora provare a venirne fuori con un primo accordo sul processo di pace che dia a tutti l'illusione che le cose stanno migliorando e che sia merito suo. Sarebbe poco, ma sarebbe già un po' meglio per lui di quanto non faccia presagire la situazione attuale.

20 marzo 2009

Oltre l'Iran

Un giro d'orizzonte della regione dopo il discorso di Obama all'Iran. Se vi siete già abituati troppo allo stile del nuovo presidente fermatevi un attimo e pensate: Bush non ha fatto un discorso così, probabilmente, neanche per una nazione alleata. La regione è in fermento e gli USA cercano di segnare un punto a loro favore iniziando un'offensiva diplomatica e mediatica che se non gioverà con Teheran sicuramente li renderà un po' più popolari tra l'opinione pubblica araba. In Iraq, ce lo segnala il Washington Post, si stanno formando nuove alleanze tra gli sciiti al potere e i sunniti contrari all'occupazione americana: un problema solo apparente per gli USA perchè la parola d'ordine sembra essere il rafforzamento dello Stato centrale. Se va in porto, il ritiro americano diventa un po' più facile, forse. La Siria manda segnali positivi, a partire dall'intervista del presidente Asad ieri a Republica che viene analizzata da Stratfor: la strategia è quella non solo di uscire dall'isolamento ma di diventare lo "swing state" della regione. Gli israeliani sono indeboliti dal loro nuovo governo: troppo a destra per la nuova realtà regionale e con un ministro degli esteri (Lieberman) piuttosto impresentabile. Netanyahu programma di andare a Washington il 3 maggio, sempre che riesca a formare un governo. Ma non ha ancora ricevuto un invito ufficiale dalla Casa Bianca. Parlerà all'AIPAC ma sono lontani i tempi in cui bastava fare la voce grossa lì per influenzare la politica di Washington. Non sarà tutto facile per l'amministrazione Obama, anche perchè avvicinarsi a Teheran può voler dire allontanarsi dall'Arabia Saudita. Non ha caso la Rand fa uscire un rapporto sulla lotta iraniano-saudita per l'egemonia regionale proprio ora.

28 febbraio 2009

Bombe, ritiri e Frattini

Due notizie del giorno: Barack Obama annuncia il piano per ritirare il grosso delle truppe dall'Iraq entro il 31 agosto del 2010 (ecco il testo del suo discorso); l'Italia potrebbe fare da apripista nel dialogo con l'Iran. Il ritiro dall'Iraq viene discusso da Michael O'Hanlon e Kenneth Pollack, due falchetti della Brookings che non hanno mai mandato giù lo slogan obamiano del "ritiro in 16 mesi" (ora sono diventati 18): secondo loro la prospettiva del ritiro non farà che aumentare la gara tra le fazioni irachene per il controllo del Paese, aumentando la violenza. E' un argomento vecchio: l'occupante se ne va e prevede il diluvio dopo il suo addio. C'è un fondo di verita in quello che dicono questi signori: sicuramente per esempio le milizie di Sadr e quelle degli altri gruppi sciiti competeranno per il controllo dell'Iraq. Ma è anche vera un'altra cosa: come insegna il Vietnam un'occupazione prolungata permette a chi sta al potere di rimandare la soluzione dei problemi politici di fondo, affidandosi al potere della baionette americane. In più, come dicono alcuni esperti sentiti dalla Reuters, la fine dell'occupazione potrebbe eliminare la base di consenso di molte milizie irachene. Passiamo all'Iran. Come ci spiega molto bene La Stampa, Hillary Clinton e Franco Frattini hanno concordato un piano d'azione: il nostro ministro degli esteri si recherà a Teheran entro marzo e poi a Trieste in giugno si farà una conferenza del G8 in cui gli iraniani saranno invitati a discutere della stabilizzazione dell'Afghanistan. Ovviamente il vertice sarà una scusa per discutere anche altro e cioè la questione nucleare. Questa, come registrarono quest'estate due degli autori di questo blog, era già un'idea che circolava a Washington: usare gli italiani come apripista e discutere con gli iraniani ufficialmente solo di Afghanistan ma in realtà di tutti i dossier. A proposito di nucleare, un bel articolo su Asia Times spiega perchè l'Iran è almeno 5 anni lontano dal farsi un vero deterrente nucleare e anche quando ce lo avrà non è detto che lo possa usare. E poi a giugno ci saranno le presidenziali anche lì: un candidato vuole la bomba e l'altro pure. Auguri.

7 febbraio 2009

E' un mondo difficile

Un po' di notizie sul mondo e gli Stati Uniti che avrete letto poco sui giornali italiani, d'altronde c'è di che occuparsi di Italia in questi giorni. Come sull'economia, il presidente e la sua amministrazione si stanno rendendo conto di quanto sia difficile la situazione. Cominciamo dall'Afghanistan: le cose in Kirghizistan vanno male. Cosa c'entra? Iniziamo col dire che questo è un paese centro-asiatico e che lì gli americani avevano impiantato una base molto importante per i rifornimenti alle truppe in Afghanistan. Bene, i russi hanno convinto i kirghizi a buttare fuori gli americani. La Clinton era un po' dispiaciuta, anche perchè negli stessi giorni gli americani hanno perso pure un altro grande canale di approvvigionamento attraverso il Pakistan. Come con i turni infrasettimanali di campionato, non ci sarà molto tempo per piangerci su: Hillary farà il suo primo viaggio in Asia e nel frattempo cerca di rifare amicizia coi russi, come ci spiega il sito della BBC. E poi ci sono state le elezioni irachene, di cui vi avevamo parlato in un post qualche giorno fa. L'affluenza è stata più bassa che nel 2005, ma sono andati a votare anche i sunniti. Non si votava invece nè in Kurdistan nè a Kirkuk, città ricca di petrolio e di conflitti tra "arabi" e curdi. I risultati ci dicono che sono cambiati i rapporti di forza tra gli sciiti ma che nessuno ora ha chiaramente il comando, sono possibili quindi nuove ondate di violenze. Tra i sunniti buon successo delle liste nazionaliste e tribali su quelle islamiche. Sarà un lungo e tormentato anno, che porterà alle elezioni politiche e, forse, anche all'inizio del ritiro americano. Ecco l'analisi del think tank realista CSIS. Sul sito del Center for American Progress invece si trova una cosa rarissima in America: un'analisi abbastanza dettagliata delle forze politiche di un paese cruciale per la politica americana, in questo caso l'Iraq.

12 settembre 2008

Zitto zitto, George allarga il conflitto

Questa qui accanto è una foto del Waziristan, l'area "tribale" del Pakistan dove pare che siano le nuove basi di al-Qa'ida. Nel quasi disinteresse della stampa internazionale, Bush ha autorizzato dei raid americani nella zona anche senza l'autorizzazione del nuovo governo pakistano. Stai a vedere, si chiede il free-lance Judah Grunstein, che ancora una volta l'amministrazione Bush non sa come comportarsi con un governo democratico di un paese alleato. Il think tank progressista American Progress si occupa parecchio di Pakistan, sarà un caso?
Nel frattempo le cose in Iraq potrebbero andare per il peggio, visto che i "figli dell'Iraq" e cioè i sunniti filo-americani non vengono integrati nel nuovo esercito iracheno. Erano uno dei pilastri della pacificazione del paese.

UPDATE: Anche il Council on Foreign Relations ultimamente si è occupato del Pakistan con grande attenzione, e oggi diffonde in rete il suo report sull'argomento. Qui il link al testo.

22 agosto 2008

Il mondo cambia, i consiglieri un po' meno

La notizia del giorno (un po' nascosta) è che la Rice avrebbe raggiunto un accordo con il governo iracheno per il ritiro delle truppe USA entro il 2011. Può essere un ritiro col trucco però: se ne vanno solo le truppe "di combattimento" mentre gli altri vanno in basi permanenti fuori dalle città. Staremo a vedere. Nel frattempo Petraeus se ne va, per andare al CENTCOM: il comando militare che ha la responsabilità del Grande Medioriente cioè dell'Iraq, dell'Afghanistan e dell'Iran. In un'intervista a Newsweek ci spiega che la situazione è migliorata ma che non c'è la democrazia bensì l' "Iraqocrazia". Comunque vada una possibile amministrazione Obama dovrà vedersela con il suo potere e il suo prestigio. A proposito di democratici il National Journal sostiene che i democratici ancora non hanno adeguato il loro bagaglio culturale alla fine della fase guerreggiata della guerra al terrorismo. E' un mondo sempre più complicato, come ci spiega Ha'aretz: se si litiga con la Russia anche il dossier iraniano ne risente. In tutto questo le certezze del passato ci tranquillizzano: il nuovo aspirante presidente democratico si circonda di gente con un solido curriculum nel campo della teoria del dominio. L'uomo della foto accanto, Richard Holbrooke, iniziò la sua carriera diplomatica durante la guerra del Vietnam quando si diceva che non si poteva, proprio no, lasciare il sud del paese ai comunisti. Oggi cosa scrive sul Washington Post? Che non si può lasciare la Georgia ai sovietici, pardon, ai russi. E poi ci spiega le regole del mondo della guerra fredda, pardon, del post-guerra fredda. Su tutt'altra linea ci sono i realisti di National Interest che spiegano in un lungo e sofisticato articolo quanto ci sia bisogno di avere buoni rapporti con i russi.

21 luglio 2008

Obama, al Maliki e il ritiro dall'Iraq


Il premier iracheno e il candidato democratico giocano di sponda. Si era capito nei giorni scorsi, quando il governo di Baghdad aveva prima fatto saltare il tavolo sullo status delle truppe Usa nel Paese e poi siglato un accordo con Bush che prevede di stabilire una cornice temporale per il ritiro. Ieri Maliki ha rilasciato un'intervista a Der Spiegel nella quale appoggia il piano di Obama, senza appoggiare il candidato. Poi ha smentito su pressione dell'ambasciata Usa, ma come sempre in questi casi, la prima parola è quella che conta: il settimanale tedesco ha il nastro e la citazione è corretta (ecco la cronaca del New York Times e un commento-reportage da Baghdad di The Nation). Come spiega l'Associated press, con la sponda ad Obama, Maliki può alzare la posta con Bush e avere delle carte da giocare nel caso di una vittoria democratica alle presidenziali. Per fare il premier iracheno bisogna essere politici scaltri e Maliki è scaltro e duro. Di certo, la gaffe di McCain sul confine “Pachistano-iracheno" (confine che non c'è e che fa il doppio con la Cecoslovacchia, Paese del passato"), assieme alla presidenzialità del viaggio di Obama, hanno dato al democratico una patente internazionale coi fiocchi. Per essere uno bollato - Da Hillary prima, da McCain poi - privo di esperienza, ha saputo giocare bene le sue carte. Questo non vuol dire che saprà anche uscire bene dall'Iraq o sconfiggere al Qaeda smettendo di uccidere civili, come sta capitando con sempre maggior frequenza in Afghanistan. Ma per fare il presidente prima bisogna vincere le elezioni. E a fare quello Obama sembra molto bravo.

3 luglio 2008

Una guerra ma anche un ritiro

Ritirarsi dall'Iraq è un po' più difficile del previsto, e allora Barack Obama precisa meglio le sue promesse: gli USA se ne andranno dall'Iraq ma solo dopo una consultazione tra presidente e militari. Politico fa il confronto tra queste dichiarazioni e quelle precedenti: un cambiamento c'è stato e i repubblicani cominciano ad avere più di qualche argomento per sostenere che il senatore è ondivago (per gli americani: "flip-flopper"). A proposito di Iraq, Douglas Feith sul Wall Street Journal ci racconta come si arrivò alla decisione dell'attacco e quali altre opzioni vennero prese in considerazione. Interessante la tesi dell'inevitabilità della guerra visto il build-up negli anni di Clinton.
Nel frattempo si parla sempre con più insistenza di un attacco americano o israeliano all'Iran: Dana Milbank sul Washington Post oscilla tra la conferma di questi piani e l'idea che si stia solo facendo la voce grossa. Per i militari si tratterebbe di un "terzo fronte" dopo l'Iraq e l'Afghanistan dove già si soffre la sovraestensione. Normale che non ne siano entusiasti. George W. Bush e i suoi amichetti di Tel Aviv non si stancano di mandare segnali poco amichevoli agli invasati di Teheran, il New York Times mette tutto in fila e fa un po' paura. Ma la strategia USA potrebbe essere vecchia come il cucco: far pensare al nemico che c'è un "uomo pazzo" alla Casa Bianca disposto a distruggere tutto se non ci si dimostra più disponibili. Ma è ancora credibile quest' "uomo pazzo" qui?

15 giugno 2008

La tesi del giovane McCain

Tornato dai suoi anni di prigionia in Vietnam, John McCain scrisse una tesi di 40 pagine per l'accademia militare. Come ci spiega il New York Times, questo testo del 1974 cercava di dimostrare come la scarsa fiducia nei motivi della guerra fosse la causa delle molte defezioni di soldati americani in favore dei Vietcong. Insomma, il movimento per la pace lavorava per il nemico e l'esercito avrebbe dovuto fare di più per convincere le sue truppe. Ma la tesi, come spiega David Kirkpatrick, non ha molto fondamento storico. Eppure, potrebbe tornare utile sull'Iraq.

10 aprile 2008

Il ritorno di Powell lontano da McCain, simpatizza per Obama


Il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà costretto a diminuire il numero delle truppe in Iraq, facendo i conti con la realtà di un esercito che non può più continuare a sostenere questo tipo di impegno bellico. È questa la convinzione di Colin Powell, ex segretario di Stato di George Bush ed ex capo di Stato Maggiore ai tempi del padre. In un'intervista all'Abc ha assunto una posizione in netto contrasto con quella del senatore veterano John McCain. "Chiunque diventerà presidente il prossimo primo gennaio, dovrà fare i conti con una forza militare che non potrà continuare a sostenere 140mila uomini dispiegati in Iraq e 20mila, o 25mila, in Afghanistan, più le altre missioni" ha detto Powell proprio nel giorno in cui George Bush ha annunciato di sospendere a tempo indeterminato il ritiro. L'uomo mandato ad agitare le provette radioattive all'Onu ha comunque sostenuto la tesi del ritiro graduale e non,come chiedono i democratici, di un ritiro rapido. Quanto alle preferenze di voto, Powell ha detto di non sapere per chi voterà e di aver apprezzato la gestione della vicenda del reverendo Wright da parte di Barack Obama. E' probabile che Powell tenga il suo endorsement per l'eventuale corsa finale. Se si schierasse contro McCain per i repubblicani sarebbe un guaio vero.

Bush e l'Iraq, un nuovo discorso (e un'intervista)

Il presidente Bush è tornato a parlare di Iraq per sostenere le tesi del generale Petraeus: stop al ritiro, mantenere 15 divisioni nel Paese e poi si vedrà. Nulla di nuovo e l'ennesimo tentativo di presentare la situazione come positiva. Come ha mostrato la rivolta sadrista (e una certa ripresa delle violenza) le cose vanno meno bene di quanto non si creda. C'è meno violenza sunnita, certo, perché dopo tre anni si è finalmente scelto di parlare con quelli a cui si è sparato addosso dal primo giorno. E poi c'è il reinserimento di una parte dei baathisti nell'esercito e nell'apparato dello Stato. Tutti elementi che hanno giovato molto più di “the surge". Frammenti del discorso di Bush sono su Cnn mentre le domande dei candidati presidente all'ambasciatore Crocker e al generale Petraeus si possono vedere su C-Span. Qui invece l'intervista del presidente al neocon Weekly standard di William Kristol.

8 aprile 2008

Guerra, tortura e uso delle parole nel post 9/11


Oggi e domani il generale Petraeus e l'ambasciatore Crocker - comandante e diplomatico a capo della missione irachena - parleranno davanti alle commissioni del Congresso. E' un appuntamento semerstrale che serve a informare il Parlamento della situazione sul terreno di guerra. Ci saranno Clinton, Obama e McCain e l'audizione sarà occasione per fare campagna elettorale indiretta. Militare, diplomatico e politici ricorreranno a esercizi retorici per dimostrare che le cose vanno bene - o male. John McCain ha già cominciato spiegando che i piani di ritiro dei democratici sono pericolosi e senza senso. L'espunzione del vocabolario di guerra da commenti e discorsi dell'amministrazione Bush è uno degli esercizi retorici più brutti ai quali la popolazione mondiale ha assistito: il water boarding è tortura? Portare la democrazia vuol dire invadere un Paese e metterlo in ginocchio? Chi si ribella all'invasione è sempre e indistintamente un terrorista? “Euphemism and american violence" è un bel saggio di David Bromwich, professore di Inglese a Yale sulla lingua della guerra nel post 9/11.

24 marzo 2008

Quattromila soldati e centinaia di migliaia di iracheni

Quando si viaggia negli States, quando si ascoltano i discorsi dei politici Usa sull'Iraq c'è una cosa che colpisce: l'Iraq e gli iracheni non esistono o quasi. La guerra, il ritiro completo o la permanenza di truppe sono un problema di quanti militari morti e/o di quanto è pericoloso andarsene per gli interessi e la sicurezza interna Usa. Senza cambiare attitudine sarà difficile che la percezione degli Stati Uniti nel mondo migliori. Pasqua è stata l'occasione per una nuova carneficina a Baghdad e dintorni: 54 morti tra militari Usa (4, toccata la nuova soglia psicologica di 4mila), civili iracheni e miliziani sunniti. Sarà stato per la visita di Cheney o per i contrasti tra Moqtada al Sadr e Ali al Sistani o per tutte le cose insieme. E' una partita complicata e ne sappiamo sempre meno: la presenza di giornalisti sul terreno è un fatto sporadico. Questo blog non si occupa di Iraq se non per i riflessi che ha sulla società e la politica americani. E allora ecco due brevi rilevazioni e analisi del Pew reserch centre sulla consapevolezza del pubblico americano in materia di cadaveri e un riepilogo 2003-2008 del giudizio del pubblico sull'avventura irachena voluta dal presidente Bush e dal suo gruppo dirigente. Un dato interessante? Il 28% sa quanti sono i morti in Iraq, il 31% sa che il Dow Jones è a quota 12mila.

19 marzo 2008

Cinque anni di Iraq. Parlano tutti, a Cheney non frega niente del consenso

Sono passati cinque anni dall'inizio della guerra in Iraq. Migliaia di bodybags sono tornate a casa e decine di migliaia di cadaveri sono stati sepolti nei cimiteri sunniti e sciiti mesopotamici. Ieri il presidente Bush ha parlato al Pentagono (qui i passaggi salienti), il vice Cheney alla ABC (qui il testo e il video dell'intervista) mentre i candidati democratici hanno colto l'occasione per spiegare la loro teoria del ritiro, distanziarsi l'uno dall'altra ed entrambi da John McCain. Il VP più potente della storia nella sua intervista sostiene di infischiarsene dei sondaggi che dicono che la gente vuole uscire dalla guerra. Qui la sintesi del discorso di Hillary dal suo sito (il link alla pagina che dovrebbe contenerlo per intero non funziona). Qui il discorso di Barack Obama. Intanto McCain è in giro per il Medio oriente, gioca a fare il comandante in capo e, per la prima volta, prende il largo nei sondaggi.