24 agosto 2009
I grattacapi del Grande Medio Oriente
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mattia toaldo
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20 marzo 2009
Oltre l'Iran
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28 febbraio 2009
Bombe, ritiri e Frattini
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7 febbraio 2009
E' un mondo difficile
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12 settembre 2008
Zitto zitto, George allarga il conflitto
Questa qui accanto è una foto del Waziristan, l'area "tribale" del Pakistan dove pare che siano le nuove basi di al-Qa'ida. Nel quasi disinteresse della stampa internazionale, Bush ha autorizzato dei raid americani nella zona anche senza l'autorizzazione del nuovo governo pakistano. Stai a vedere, si chiede il free-lance Judah Grunstein, che ancora una volta l'amministrazione Bush non sa come comportarsi con un governo democratico di un paese alleato. Il think tank progressista American Progress si occupa parecchio di Pakistan, sarà un caso?
Nel frattempo le cose in Iraq potrebbero andare per il peggio, visto che i "figli dell'Iraq" e cioè i sunniti filo-americani non vengono integrati nel nuovo esercito iracheno. Erano uno dei pilastri della pacificazione del paese.
UPDATE: Anche il Council on Foreign Relations ultimamente si è occupato del Pakistan con grande attenzione, e oggi diffonde in rete il suo report sull'argomento. Qui il link al testo.
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22 agosto 2008
Il mondo cambia, i consiglieri un po' meno
La notizia del giorno (un po' nascosta) è che la Rice avrebbe raggiunto un accordo con il governo iracheno per il ritiro delle truppe USA entro il 2011. Può essere un ritiro col trucco però: se ne vanno solo le truppe "di combattimento" mentre gli altri vanno in basi permanenti fuori dalle città. Staremo a vedere. Nel frattempo Petraeus se ne va, per andare al CENTCOM: il comando militare che ha la responsabilità del Grande Medioriente cioè dell'Iraq, dell'Afghanistan e dell'Iran. In un'intervista a Newsweek ci spiega che la situazione è migliorata ma che non c'è la democrazia bensì l' "Iraqocrazia". Comunque vada una possibile amministrazione Obama dovrà vedersela con il suo potere e il suo prestigio. A proposito di democratici il National Journal sostiene che i democratici ancora non hanno adeguato il loro bagaglio culturale alla fine della fase guerreggiata della guerra al terrorismo. E' un mondo sempre più complicato, come ci spiega Ha'aretz: se si litiga con la Russia anche il dossier iraniano ne risente. In tutto questo le certezze del passato ci tranquillizzano: il nuovo aspirante presidente democratico si circonda di gente con un solido curriculum nel campo della teoria del dominio. L'uomo della foto accanto, Richard Holbrooke, iniziò la sua carriera diplomatica durante la guerra del Vietnam quando si diceva che non si poteva, proprio no, lasciare il sud del paese ai comunisti. Oggi cosa scrive sul Washington Post? Che non si può lasciare la Georgia ai sovietici, pardon, ai russi. E poi ci spiega le regole del mondo della guerra fredda, pardon, del post-guerra fredda. Su tutt'altra linea ci sono i realisti di National Interest che spiegano in un lungo e sofisticato articolo quanto ci sia bisogno di avere buoni rapporti con i russi.
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21 luglio 2008
Obama, al Maliki e il ritiro dall'Iraq
Il premier iracheno e il candidato democratico giocano di sponda. Si era capito nei giorni scorsi, quando il governo di Baghdad aveva prima fatto saltare il tavolo sullo status delle truppe Usa nel Paese e poi siglato un accordo con Bush che prevede di stabilire una cornice temporale per il ritiro. Ieri Maliki ha rilasciato un'intervista a Der Spiegel nella quale appoggia il piano di Obama, senza appoggiare il candidato. Poi ha smentito su pressione dell'ambasciata Usa, ma come sempre in questi casi, la prima parola è quella che conta: il settimanale tedesco ha il nastro e la citazione è corretta (ecco la cronaca del New York Times e un commento-reportage da Baghdad di The Nation). Come spiega l'Associated press, con la sponda ad Obama, Maliki può alzare la posta con Bush e avere delle carte da giocare nel caso di una vittoria democratica alle presidenziali. Per fare il premier iracheno bisogna essere politici scaltri e Maliki è scaltro e duro. Di certo, la gaffe di McCain sul confine “Pachistano-iracheno" (confine che non c'è e che fa il doppio con la Cecoslovacchia, Paese del passato"), assieme alla presidenzialità del viaggio di Obama, hanno dato al democratico una patente internazionale coi fiocchi. Per essere uno bollato - Da Hillary prima, da McCain poi - privo di esperienza, ha saputo giocare bene le sue carte. Questo non vuol dire che saprà anche uscire bene dall'Iraq o sconfiggere al Qaeda smettendo di uccidere civili, come sta capitando con sempre maggior frequenza in Afghanistan. Ma per fare il presidente prima bisogna vincere le elezioni. E a fare quello Obama sembra molto bravo.
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3 luglio 2008
Una guerra ma anche un ritiro
Ritirarsi dall'Iraq è un po' più difficile del previsto, e allora Barack Obama precisa meglio le sue promesse: gli USA se ne andranno dall'Iraq ma solo dopo una consultazione tra presidente e militari. Politico fa il confronto tra queste dichiarazioni e quelle precedenti: un cambiamento c'è stato e i repubblicani cominciano ad avere più di qualche argomento per sostenere che il senatore è ondivago (per gli americani: "flip-flopper"). A proposito di Iraq, Douglas Feith sul Wall Street Journal ci racconta come si arrivò alla decisione dell'attacco e quali altre opzioni vennero prese in considerazione. Interessante la tesi dell'inevitabilità della guerra visto il build-up negli anni di Clinton.
Nel frattempo si parla sempre con più insistenza di un attacco americano o israeliano all'Iran: Dana Milbank sul Washington Post oscilla tra la conferma di questi piani e l'idea che si stia solo facendo la voce grossa. Per i militari si tratterebbe di un "terzo fronte" dopo l'Iraq e l'Afghanistan dove già si soffre la sovraestensione. Normale che non ne siano entusiasti. George W. Bush e i suoi amichetti di Tel Aviv non si stancano di mandare segnali poco amichevoli agli invasati di Teheran, il New York Times mette tutto in fila e fa un po' paura. Ma la strategia USA potrebbe essere vecchia come il cucco: far pensare al nemico che c'è un "uomo pazzo" alla Casa Bianca disposto a distruggere tutto se non ci si dimostra più disponibili. Ma è ancora credibile quest' "uomo pazzo" qui?
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15 giugno 2008
La tesi del giovane McCain
Tornato dai suoi anni di prigionia in Vietnam, John McCain scrisse una tesi di 40 pagine per l'accademia militare. Come ci spiega il New York Times, questo testo del 1974 cercava di dimostrare come la scarsa fiducia nei motivi della guerra fosse la causa delle molte defezioni di soldati americani in favore dei Vietcong. Insomma, il movimento per la pace lavorava per il nemico e l'esercito avrebbe dovuto fare di più per convincere le sue truppe. Ma la tesi, come spiega David Kirkpatrick, non ha molto fondamento storico. Eppure, potrebbe tornare utile sull'Iraq.
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10 aprile 2008
Il ritorno di Powell lontano da McCain, simpatizza per Obama
Il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà costretto a diminuire il numero delle truppe in Iraq, facendo i conti con la realtà di un esercito che non può più continuare a sostenere questo tipo di impegno bellico. È questa la convinzione di Colin Powell, ex segretario di Stato di George Bush ed ex capo di Stato Maggiore ai tempi del padre. In un'intervista all'Abc ha assunto una posizione in netto contrasto con quella del senatore veterano John McCain. "Chiunque diventerà presidente il prossimo primo gennaio, dovrà fare i conti con una forza militare che non potrà continuare a sostenere 140mila uomini dispiegati in Iraq e 20mila, o 25mila, in Afghanistan, più le altre missioni" ha detto Powell proprio nel giorno in cui George Bush ha annunciato di sospendere a tempo indeterminato il ritiro. L'uomo mandato ad agitare le provette radioattive all'Onu ha comunque sostenuto la tesi del ritiro graduale e non,come chiedono i democratici, di un ritiro rapido. Quanto alle preferenze di voto, Powell ha detto di non sapere per chi voterà e di aver apprezzato la gestione della vicenda del reverendo Wright da parte di Barack Obama. E' probabile che Powell tenga il suo endorsement per l'eventuale corsa finale. Se si schierasse contro McCain per i repubblicani sarebbe un guaio vero.
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Bush e l'Iraq, un nuovo discorso (e un'intervista)
Il presidente Bush è tornato a parlare di Iraq per sostenere le tesi del generale Petraeus: stop al ritiro, mantenere 15 divisioni nel Paese e poi si vedrà. Nulla di nuovo e l'ennesimo tentativo di presentare la situazione come positiva. Come ha mostrato la rivolta sadrista (e una certa ripresa delle violenza) le cose vanno meno bene di quanto non si creda. C'è meno violenza sunnita, certo, perché dopo tre anni si è finalmente scelto di parlare con quelli a cui si è sparato addosso dal primo giorno. E poi c'è il reinserimento di una parte dei baathisti nell'esercito e nell'apparato dello Stato. Tutti elementi che hanno giovato molto più di “the surge". Frammenti del discorso di Bush sono su Cnn mentre le domande dei candidati presidente all'ambasciatore Crocker e al generale Petraeus si possono vedere su C-Span. Qui invece l'intervista del presidente al neocon Weekly standard di William Kristol.
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8 aprile 2008
Guerra, tortura e uso delle parole nel post 9/11
Oggi e domani il generale Petraeus e l'ambasciatore Crocker - comandante e diplomatico a capo della missione irachena - parleranno davanti alle commissioni del Congresso. E' un appuntamento semerstrale che serve a informare il Parlamento della situazione sul terreno di guerra. Ci saranno Clinton, Obama e McCain e l'audizione sarà occasione per fare campagna elettorale indiretta. Militare, diplomatico e politici ricorreranno a esercizi retorici per dimostrare che le cose vanno bene - o male. John McCain ha già cominciato spiegando che i piani di ritiro dei democratici sono pericolosi e senza senso. L'espunzione del vocabolario di guerra da commenti e discorsi dell'amministrazione Bush è uno degli esercizi retorici più brutti ai quali la popolazione mondiale ha assistito: il water boarding è tortura? Portare la democrazia vuol dire invadere un Paese e metterlo in ginocchio? Chi si ribella all'invasione è sempre e indistintamente un terrorista? “Euphemism and american violence" è un bel saggio di David Bromwich, professore di Inglese a Yale sulla lingua della guerra nel post 9/11.
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24 marzo 2008
Quattromila soldati e centinaia di migliaia di iracheni
Quando si viaggia negli States, quando si ascoltano i discorsi dei politici Usa sull'Iraq c'è una cosa che colpisce: l'Iraq e gli iracheni non esistono o quasi. La guerra, il ritiro completo o la permanenza di truppe sono un problema di quanti militari morti e/o di quanto è pericoloso andarsene per gli interessi e la sicurezza interna Usa. Senza cambiare attitudine sarà difficile che la percezione degli Stati Uniti nel mondo migliori. Pasqua è stata l'occasione per una nuova carneficina a Baghdad e dintorni: 54 morti tra militari Usa (4, toccata la nuova soglia psicologica di 4mila), civili iracheni e miliziani sunniti. Sarà stato per la visita di Cheney o per i contrasti tra Moqtada al Sadr e Ali al Sistani o per tutte le cose insieme. E' una partita complicata e ne sappiamo sempre meno: la presenza di giornalisti sul terreno è un fatto sporadico. Questo blog non si occupa di Iraq se non per i riflessi che ha sulla società e la politica americani. E allora ecco due brevi rilevazioni e analisi del Pew reserch centre sulla consapevolezza del pubblico americano in materia di cadaveri e un riepilogo 2003-2008 del giudizio del pubblico sull'avventura irachena voluta dal presidente Bush e dal suo gruppo dirigente. Un dato interessante? Il 28% sa quanti sono i morti in Iraq, il 31% sa che il Dow Jones è a quota 12mila.
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19 marzo 2008
Cinque anni di Iraq. Parlano tutti, a Cheney non frega niente del consenso
Sono passati cinque anni dall'inizio della guerra in Iraq. Migliaia di bodybags sono tornate a casa e decine di migliaia di cadaveri sono stati sepolti nei cimiteri sunniti e sciiti mesopotamici. Ieri il presidente Bush ha parlato al Pentagono (qui i passaggi salienti), il vice Cheney alla ABC (qui il testo e il video dell'intervista) mentre i candidati democratici hanno colto l'occasione per spiegare la loro teoria del ritiro, distanziarsi l'uno dall'altra ed entrambi da John McCain. Il VP più potente della storia nella sua intervista sostiene di infischiarsene dei sondaggi che dicono che la gente vuole uscire dalla guerra. Qui la sintesi del discorso di Hillary dal suo sito (il link alla pagina che dovrebbe contenerlo per intero non funziona). Qui il discorso di Barack Obama. Intanto McCain è in giro per il Medio oriente, gioca a fare il comandante in capo e, per la prima volta, prende il largo nei sondaggi.