6 novembre 2008

Un racconto del D-day (visto che chi mi paga per stare qui non lo ha pubblicato)

Martino Mazzonis
Chicago - nostro inviato
Non erano passate le dieci, i seggi della California avevano chiuso da un minuto. Da un tendone chiuso alla stampa e al pubblico, dietro al palco allestito a Grant Park, si alzano delle grida di gioia. La gente più vicina le sente e capisce. E' come un'onda che si espande sul gigantesco prato dove la gente aspetta da ore e segue i risultati trasmessi dalla Cnn. Un 46enne che di nome fa Barack Hussein Obama è il 44esimo presidente degli Stati Uniti. Ha vinto le elezioni con almeno il 53 per cento dei voti, a vinto Stati dove il suo partito non vinceva da quarant'anni, ha portato più gente ai seggi che in qualsiasi altra elezione della storia statunitense.
L'atmosfera di Chicago era allegra da ore. I 70mila che avevano un biglietto e le altre decine di migliaia che stavano fuori non erano lì per seguire la notte elettorale in diretta. Erano arrivati da tutta l'America per fare festa. Man mano che i seggi chiudevano, seguendo il fuso orario del grande Paese, le certezze di chi ci credeva si facevano concrete. Prima la Pennsylvania, poi il New Hampshire, poi l'Iowa e l'Ohio, infine la Florida, la Virginia, l'Indiana, il Colorado, il Nevada e il New Mexico si tingevano di blu. Tranne la prima, tutti avevano votato Bush nel 2004. Alle due del mattino restavano tre Stati da assegnare.
"Yes we did" e "We want change" ha gridato la gente. L'abbiamo fatto. C'era più gioia che commozione a Grant Park. In tanti piangevano, più i bianchi che gli afroamericani, che si abbracciavano, sventolavano quello che avevano e ridevano. "Barack Obama è il presidente, Barack Obama è il presidente", urlava un giornalista radiofonico, come se dovesse convincersi anche lui che quella che stava dicendo era la realtà. Cinque ragazzi sui vent'anni si abbracciano e raccontano come la hanno vissuta loro, quelli che sono stati il motore della campagna, a cui è dedicato un video che scorre sugli schermi prima del discorso di quello che fino a gennaio è il solo senatore dell'Illinois. Il video parla dell'importanza della partecipazione e della necessità di costruire il cambiamento partecipando attivamente alla vita pubblica. "Potrò dire ai miei figli che c'ero, che l'ho votato, che l'ho scelto fin dall'inizio", spiega Jennie, che indossa una maglietta Barack's in the house, una delle centinaia, diverse tra loro, che gli afroamericani vendono come fosse pane a buon prezzo durante una carestia sui marciapiede della Michigan avenue, la grande arteria ornata di grattacieli dei primi novecento che scorre davanti al parco. Il suo amico, cappellino e occhiali spiega che lui è musulmano è che si sente felice, che da domani si sentirà più cittadino. Il terzo a parlare ha una aria messicana, e dice che la gente ha fatto politica, che questo è un movimento.
Alle dieci e venti circa è l'ora di McCain di concedere la vittoria all'avversario. Il senatore dell'Arizona smette i panni dell'estremista di desta indossati per conquistare il suo partito e torna ad essere quello che è: un sano conservatore moderato e, soprattutto, patriota. Dopo aver zittito qualcuno nella platea di Phoenix che fischiava il nuovo presidente, riconosce il miracolo fatto da Obama: "Che ha incluso nel processo democratico parti della popolazione convinte che non avrebbero mai avuto un peso nell'elezione del presidente. Immagino che significato abbia questa notte per gli afroamericani". Il risultato dimostra, secondo McCain, che l'America è lontana da quella razzista che quando Theodore Roosevelt invitò a cena il leader nero Booker T. Washington nel 1901 storse la bocca e protestò. Poi McCain ha parlato ai suoi: "Nessuno, dopo questa notte, metta in discussione il suo amore per il miglior Paese del mondo, chiedo a tutti quelli che mi hanno sostenuto di unirsi a me nel fare gli auguri a Obama e a lavorare per il bene del Paese". Nazionalista, ma sincero e signore.
A questo punto tutto è pronto. Cominciano le celebrazioni. Prima un reverendo conduce una preghiera, poi il giuramento alla bandiera, poi l'inno cantato da tutta la massa di gente. Queste tre cose non mancano mai in una cerimonia solenne che si rispetti. Poi, sul palco blu, con una fila di bandiere dietro, compare la famiglia presidenziale. Barack, Michelle, Malia e Sasha Obama sfilano, salutano in fretta. Moglie e bambine escono, il senatore eletto prende la parola. Non è bravo come al solito. Durante la campagna elettorale ha dimostrato una forza di volontà e un equilibrio superiori, ma stanotte le ginocchia tremano un po' anche a lui. E poi due giorni fa è morta la nonna che lo ha allevato, fatto crescere, studiare. E allora, nonostante l'ottimo discorso, la capacità di interpretarlo è un po' sotto la media.
Anche nel discorso, Obama ripete dell'importanza della partecipazione. E da una versione della grandezza dell'America nuova, coniuga le classiche formule patriottiche americane in un modo diverso. "Se c'è qualcuno che non crede che l'America sia il luogo dove ogni cosa è possibile, che si chiede sei i sogni dei padri fondatori siano ancora vivi, che discute la forza della nostra democrazia, stanotte ha avuto una risposta. L'hanno data le file di gente attorno alle scuole e agli ospedali, le attese di ore di gente che non aveva mai votato prima perché credeva che questi debbano essere tempi diversi, che la loro voce potesse fare la differenza - ha detto per prima cosa Obama - è la voce dei ricchi e dei poveri, democratici, repubblicani, neri, bianchi, latinos, asiatici, nativi, gay, etero, diversamente abili, vecchi e giovani". Dopo i ringraziamenti a collaboratori e staff, quello ai "lavoratori che hanno messo mano ai loro pochi risparmi per finanziare questa campagna, quei giovani che hanno rifiutato l'idea di essere una generazione apatica, a quegli anziani che sono usciti al freddo a fare porta a porta". Almeno per questa notte, Obama non dimentica il suo messaggio: il Change, il cambiamento si costruisce con la partecipazione di tutti. Per cambiare un "un paese che combatte due guerre, un pianeta in pericolo e fronteggiare una crisi economica senza precedenti" serviranno tutti. Per creare energia rinnovabile posti di lavoro, scuole migliori, serviranno tutti.
Il passaggio bello, forte, comovente è quello dedicato a Ann Nixon Cooper, 106enne di Atlanta che ieri ha votato per lui. Qui Obama ritrova la verve migliore e scandisce le frasi quasi come in un sermone. "Quando è nata non avrebbe potuto votare per due motivi: era donna e nera. Ha visto la disperazione della ciotola vuota e ha visto una nazione conquistarsi il New Deal, nuovo lavoro e un nuovo terreno comune. Yes we can. Ha visto bombe cadere a Pearl Harbor e tirannie minacciare il mondo ed è stata testimone del trionfo della democrazia. Yes we can. Era sugli autobus a Montgomery e sul ponte di Selma e ha ascoltato un pastore di Atlanta dire alla gente We shall overcome. Yes we can. Un uomo è sceso sulla luna, il mondo si è connesso grazie alla scienza e all'immaginazione e quest'anno ha votato toccando uno schermo perché dopo 106 anni sa che l'America può cambiare. Yes we can". Poi, Obama si è chiesto e ha ricordato agli americani che "resta ancora molto da fare. Chiediamoci, stasera, se i nostri figli dovessero vivere nel prossimo secolo, se le mie figlie fossero fortunate da vivere a lungo come Ann Nixon Cooper, che tipo di cambiamenti vedrebbero? Questo è il momento per rispondere a quella domanda, questo è il nostro tempo".
Difficile non festeggiare dopo aver sentito un discorso così. Per le strade d'America, da Washington a Chicago la gente è uscita in strada, Nella chiesa di Marthin Luther King ad Atlanta si è pregato. Sulla Michigan avenue bianchi e neri si abbracciavano e cantavano. Durerà poco? Forse sì. Obama deluderà? Possibile dopo aver creato tante speranze. Ma nella notte di Chicago, l'America che esce da otto anni bui, che ha violato la sua costituzione e la dignità umana, che ha combattuto guerre ed ha portato se stessa sull'orlo della catastrofe sembra aver trovato una strada. Non guarda al passato ma al futuro, non si chiude, si apre al mondo. Vuole essere prima della classe, certo, ma non essendo il bullo che picchia i bambini più piccoli. Obama sembra un maestro comprensivo e paziente, gli americani, almeno una parte di loro, degli scolari che forse hanno capito che devono cominciare a pensare con la loro testa.

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