Sembra un secolo fa quando Barack Obama parlava al Cairo di un nuovo Medio Oriente. Oggi c'è chi dice che di fronte a quello che sta succedendo in Iran la sua strategia sia stata sconfitta. Un editoriale piuttosto duro del Washington Post propone una soluzione già sentita: il regime change, cioè il rovesciamento con la forza (americana) del regime di Teheran. Gli americani in realtà non sembrano capirci moltissimo della situazione, tanto è vero che nessuno aveva neanche lontanamente previsto gli sviluppi della situazione post-elettorale. Sul sito del National Interest, l'esperta della Brookings Suzanne Maloney fa un elenco di tutti gli errori di valutazione: pensare che Khamenei volesse fare l'arbitro; credere che nessuno avrebbe toccato le istituzioni rappresentative; sottovalutare l'avversione degli iraniani rispetto ad una possibile rivolta; ritenere l'economia la possibile chiave di volta della caduta di Ahmadinejad. Ora la situazione non è facile eppure da un'inchiesta del blog The Cable all'interno degli esperti di Washington emerge come ci sia più di un motivo per essere ottimisti: le elezioni in Libano sono andate bene, la Siria vuole trattare con gli Usa, l'Iraq sembra essere più stabile. Sugli ultimi due punti è lecito sollevare più di un dubbio. Ma Trita Parsi, del National Iranian American Council, sostiene un wishful thinking che abbiamo già sentito in ambienti più o meno ufficiosi: il colpo di stato dei "duri" preluderebbe ad un'apertura sul negoziato nucleare. Lasciare quindi Ahmadinejad al potere proprio mentre si decide di trattare, per avere una garanzia sulla compatezza del regime. Sarà, ma forse questa crisi iraniana è la prima vera crisi per il "consenso pragmatico" in vigore a Washington già da prima dell'avvento di Obama.
27 giugno 2009
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