Adesso che la scure della politica e della stampa si sta abbattendo su Hillary Clinton (un'ultima coltellata on-line alla senatrice, una tra le tante: Douthat su The Atlantic che spiega perché il partito democratico impedirà alla Clinton di provare a vincere nella Convention. Titolo: "Why Hillary Cant't Win"), possiamo cominciare a osservare con più attenzione il campo repubblicano. I democratici hanno i numeri dalla loro: l'economia e la guerra vanno male dopo otto anni di presidenza repubblicana, e la superpartecipazione alle primarie dimostra il desiderio di cambiamento. Nonostante questo i democratici sono terrorizzati dalla possibilità di vedere vincere di nuovo un candidato repubblicano, uno che alla fine sia capace di tenere insieme i pezzi di una coalizione stanca ma ancora in grado di sparare il colpo decisivo (sul clima nel partito democratico - il tema è la paura di una spaccatura nel loro elettorato - leggete ASSOLUTAMENTE la trascrizione del dibattito televisivo della CNN tra Paul Begala e Donna Brazile: qui il video).
E i repubblicani? Hanno più paura dei democratici. Vedono che il proprio candidato ha raccolto molti meno soldi, che si perdono seggi - un tempo sicuri - al Congresso (è appena accaduto in Louisiana), osservano l'incredibile mobilitazione dei democratici alle primarie. E' vero che Nenni in Italia diceva "piazze piene, urne vuote", ma i repubblicani hanno paura, paura vera. O quanto meno si cerca di dare una scossa decisa. Leggete cosa dice Newt Gingrich a proposito della sconfitta della Louisiana e il neocon da barzelletta John Podhoretz su Commentary sulle primarie democratiche (magari sull'articolo di Gingrich ci torniamo, vale la pena).
8 maggio 2008
E i repubblicani?
Pubblicato da America2008 alle 10:23
Etichette: coalizione conservatrice
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3 commenti:
Secondo me i repubblicani fanno benissimo a preoccuparsi, ma per ragioni completamente diverse da quelle, molto più effimere e contigenti, indicate in questo post.
Il pendolo dell’alternanza nella negli USA è inesorabile: mantenere lo stesso colore politico alla Casa Bianca è quasi impossibole.
A partire dal secondo dopoguerra non c'è riuscito quasi nessuno: Nixon nel 1960 non riuscì a succedere al secondo mandato di Eisenhower, e venne battuto da Kennedy anche se per un pugno di voti; Humphrey nel '68 venne battuto proprio da Nixon fallendo nel tentativo della tripletta dopo Kennedy e Johnson; Ford, complice l'onta del Watergate, non riuscì a infilare il "tris" dopo i due di Nixon, e venne battuto da Carter; l’ultimo a provarci è stato Al Gore nel 2000, e sappiamo com'è andata.
L'unico, ma proprio l'unico, ad aver fatto il botto - ma l'eccezione conferma la regola... - è stato Bush padre nell'88. Ma si trattò, nelle intezioni degli elettori, di un "terzo mandato" a Reagan... il che poi non fu, e per la delusione il reflusso fu gigantesco.
McCain è quindi alle prese con una vera e propria missione impossibile, e il solo fatto che non venga dato per stra-spacciato a priori è di per sè un miracolo!
Il post da un umore, che ha radici profonde. Le nostre sono spesso "democrazie degli scontenti" dove si finisce con il lapidare il re ormai nudo (e Bush è molto nudo, almeno da Katrina, dal 2005). Però, se guardiamo indietro, il ciclo lungo è un ciclo conservatore: in 40 anni i repubblicani hanno tenuto la presidenza per 28; già con Nixon era evidente la nascita della "nuova maggioranza", e la cridi del dop Watergate nascose questo fatto momentaneamente. I democratici per vincere hanno avuto bisogno di due outsider del sud, Carter e Clinton; insomma, a leggere l'articolo di Gingrich (che è uno che ha veramente testa, un politico vero che è uscito dal giro per un peccato di arroganza) in ballo non ci sono solo le elezioni, ma la tenuta politico-culturale della coalizione conservatrice che ha dominato il paese.
Non si sa se i democratici saranno in grado di sostituirla (noi speriamo di sì, ma per quello non basta vincere le elezioni), però di certo queste sono davvero elezioni importanti, perché la posta è elevatissima, non è solo la Casa bianca. Ale Tap ha ragione che tenere la Casa bianca dopo aver governato otto anni è complicato, ma qui la faccenda sembra più grossa.
La domanda del 2008 è: nasce una nuova, duratura coalizione democratica (tenuta insieme, ora, dalla paura per la crisi economica) che rovescia il dominio conservatore reaganiano o no?
Secondo me la questione è ancora più complicata.
Un anno e mezzo fa David Brooks sul New York Times in occasione delle elezioni di medio termine del novembre 2006, la fase di egemonia di egemonia conservatrice (preceduta a sua volta da quella di egemonia “liberal” rooseveltian-trumanian-kennediana) è sì terminata, e infatti nei sondaggi sempre meno elettori si identificano con il partito repubblicano; ma a ciò non corrisponde una maggior identificazione con il partito democratico, bensì un continuo incremento di coloro che non si identificano né con l’uno né con l’altro.
Scriveva Brooks:
Se guardate allo scenario politico attuale, l’identificazione con il partito repubblicano è in caduta libera, ma a questo non corrisponde un incremento dell’identificazione con il partito democratico. C’è invece un numero crescent di persone che non si identificano con nessuno dei due. […] Nel prossimo futuro, i candidati che prospereranno sono quelli che offrono un modo nuovo di fare politica. […] Il centro di gravità della politica Americana si sposterà. Nell’epoca dominata dalla sinistra, corrispondeva alle grandi città del Nordest. Nell’era conservatrice, risiedeva nel Sud e nelle città-dormitorio come quelle della California meridionale. Nel prossimo futuro, il centro di gravità si sposterà verso l’Ovest e le pianure del Midwest, verso gli abitanti dei pragmatici e autonomi complessi residenziali suburbani che vanno spuntando un po’ ovunque laggiù”.
Grover Norquist, sono d'accordo, non è uno stupido. E infatti proprio lui, che non è mai stato un "McCainiac", ha recentemente osservato come il senatore dell'Arizona potrebbe riuscire in un’impresa analoga a quella messa a segno da Sarkozy, che nel 2007 è succeduto, in nome della rupture, a strappare di mano alla sinistra la bandiera del “cambiamento”, nonostante l'amministrazione uscente fosse di destra. McCain è forte delle sue contraddizioni: professionista di lungo corso della politica, ma anche “uomo del popolo” e nemico delle lobby; conservatore, ma anche liberale ed ecologista; “falco”, ma anche bipartisan; realista, ma anche idealista…
Attenzione a sottovalutare il fattore "I"(ndependence), stavolta conterà come non mai.
ale tap
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