Un mese fa Obama parlava al Cairo. Nel frattempo sono successe talmente tante cose che sembra passato almeno un anno. In primis, la rivolta in Iran seguita alle elezioni presidenziali non riconosciute come regolari dall'opposizione. Il New York Times fa il punto della situazione persiana: anche se la rivolta sembra essere stata tutto sommato domata (ma bisognerà vedere il prossimo sciopero generale) si è aperta una faglia nella società iraniana e nel clero che non si rimarginerà presto. Gli Usa possono agire in molti modi per allargarla e far prevalere gli oppositori. Ma possono, aggiungiamo noi, anche decidere che negoziare con l'Iran sul nucleare e sull'Afpak è più importante del cambiamento di regime. Per ora noi italiani giochiamo il ruolo dei falchi, alludendo ad un inasprimento delle sanzioni al quale gli americani si starebbero opponendo. In ogni caso la situazione è molto più complicata di prima. Nelle ultime ore poi è stata lanciata una notevole offensiva in Afghanistan, si dice la più grande dai tempi del Vietnam. Il New York Times ci spiega perchè, anche se dovessero vincere militarmente, gli americani si troverebbero di fronte molte difficoltà nel portare dalla loro parte la popolazione. L'impressione è che i limiti dell'elaborazione americana in politica estera si vedano ancora tutti su questo fronte dato che la risposta alle insurrezioni sembra essere sempre quella del generale Westmoreland in Indocina: "firepower". Nel frattempo Asad ha invitato Obama in Siria, chissà che il processo di pace non diventi il campionato di consolazione della politica mediorientale del presidente riservandogli più soddisfazioni sia dell'Iran che dell'Afpak.
3 luglio 2009
Un mese dopo il Cairo
Pubblicato da mattia toaldo alle 18:37
Etichette: Afghanistan, iran, Medio Oriente, Obama
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