30 giugno 2009

Notizia vecchia ma buona: prima approvazione per la legge sul clima

In teoria si trattava di uno degli architravi della politica economica in salsa Obama. Poi sono collate le borse, è arrivata la recessione ed è saltato in aria il modello indebitati e consuma. E così l'investimento in tecnologie ambientali non è più al centro del dibattito politico Usa. Prima o poi lo sarà perché, su questo non ci piove, per smetterla di invadere un Paese del Medio oriente ogni tre anni, rilanciare l'industria dei trasporti (se non solo dell'auto) e cercare di disinquinare un poco, gli americani dovranno imparare, copiare, innovare e provare a diventare il centro propulsore della rivoluzione verde come lo sono stati di quella informatica. La notizia è che La Camera dei Rappresentanti Usa ha approvato con 219 voti e 212 contrari una legge che pone severi limiti ai gas inquinanti e prevede una riduzione delle emissioni dell'83% entro il 2050 (l'analisi dell'Associated press e quella di Time) Il provvedimento, che ora passa al Senato, non ha avuto il voto di 44 deputati democratici. Miopia, opposizione interna, moderatismo non meglio spiegabile se non per opportunismo. La legge è moderata ma affronta il tema in maniera generale e somiglia a cose che in Europa si sono già fatte nel tempo e a piccoli passi (in Europa non si negava l'effetto serra, né si sperava di salvare l'industria dell'auto producendo SUV).
Il presidente americano ha parlato di "passo coraggioso e necessario che getta le premesse per la creazione di nuove industrie e milioni di posti di lavoro, riducendo la pericolosa dipendenza dal petrolio straniero". Il pacchetto di 1.200 pagine prevede anche un passaggio graduale alle energia pulite. I critici sostengono che obiettivi così drastici porteranno alla perdita di milioni di posti di lavoro nei prossimi anni, i sostenitori che ci sarà un passaggio di posti di lavoro da settori aretrati a nuovi settori. La legge impone alle società di servizi elettrici di offrire una percentuale crescente di energia da fonti rinnovabili, dall'eolico al solare. Nuove regole anche per il settore edilizio, con misure per migliorare l'efficienza energetica e ridurre i consumi. Già, che fine ha fatto il piano casa di SB?? Non serviva come strumento straordinario per rilanciare l'economia? La politica Usa non è particolarmente veloce, ma già in questi giorni il Dipartimento dell'Energia ha fissato nuovi parametri di efficienza energetica per gli edifici pubblici: risparmio di soldi, meno consumi, meno inquinamento.
Ultimo tema, la politica. Vista la riottosità del partito, l'approvazione della legge è considerata un successo di Obama. Negli ultimi giorni, il presidente e Pelosi si erano dati un enorme daffare (ecco l'analisi di Politico). A proposito di politica: Paul Krugman chiama coloro che hanno votato no, traditori del pianeta. Ma si sa, il premio Nobel dell'economia è un pazzo estremista.

27 giugno 2009

La grana iraniana

Sembra un secolo fa quando Barack Obama parlava al Cairo di un nuovo Medio Oriente. Oggi c'è chi dice che di fronte a quello che sta succedendo in Iran la sua strategia sia stata sconfitta. Un editoriale piuttosto duro del Washington Post propone una soluzione già sentita: il regime change, cioè il rovesciamento con la forza (americana) del regime di Teheran. Gli americani in realtà non sembrano capirci moltissimo della situazione, tanto è vero che nessuno aveva neanche lontanamente previsto gli sviluppi della situazione post-elettorale. Sul sito del National Interest, l'esperta della Brookings Suzanne Maloney fa un elenco di tutti gli errori di valutazione: pensare che Khamenei volesse fare l'arbitro; credere che nessuno avrebbe toccato le istituzioni rappresentative; sottovalutare l'avversione degli iraniani rispetto ad una possibile rivolta; ritenere l'economia la possibile chiave di volta della caduta di Ahmadinejad. Ora la situazione non è facile eppure da un'inchiesta del blog The Cable all'interno degli esperti di Washington emerge come ci sia più di un motivo per essere ottimisti: le elezioni in Libano sono andate bene, la Siria vuole trattare con gli Usa, l'Iraq sembra essere più stabile. Sugli ultimi due punti è lecito sollevare più di un dubbio. Ma Trita Parsi, del National Iranian American Council, sostiene un wishful thinking che abbiamo già sentito in ambienti più o meno ufficiosi: il colpo di stato dei "duri" preluderebbe ad un'apertura sul negoziato nucleare. Lasciare quindi Ahmadinejad al potere proprio mentre si decide di trattare, per avere una garanzia sulla compatezza del regime. Sarà, ma forse questa crisi iraniana è la prima vera crisi per il "consenso pragmatico" in vigore a Washington già da prima dell'avvento di Obama.

26 giugno 2009

La guerra di Obama (ma anche la nostra)


Mentre il mondo parla della morte di Michael Jackson, c'è un paese dell'Asia dove l'America di Obama combatte una guerra che molti ritengono già persa. Uno dei problemi è che quella guerra la sta combattendo anche il nostro paese, al costo di un milione di euro al giorno e di tante vite umane. Vale la pena di leggere l'articolo di Emanuele Giordana (Lettera 22 e Carta) che ci spiega, oltre ai costi, anche i motivi molteplici di imbarazzo: non c'è nessuna "missione di pace", non era così neanche ai tempi del governo Prodi che su questo tema ci stava perdendo le penne; gli americani non sottostanno a nessun accordo e i maggiori bombardamenti fuori bersaglio - con decine di vittime - li hanno fatti proprio nella zona sotto responsabilità italiana; noi non si capisce che missione e quali obiettivi abbiamo ma l'importante, per la sinistra di ieri come per la destra di oggi, è esserci. Insomma, la logica ottocentesca con cui partecipammo alla guerra di Crimea vale ancora per le nostre classi dirigenti. L'editorialista del Guardian Simon Jenkins parla piuttosto chiaro: quella in Afghanistan è un'escalation fin troppo simile nella sua inutilità e mortalità di quella del Vietnam. Con l'unica differenza che noi italiani in Vietnam non c'eravamo mentre lì ci siamo anche se i nostri giornali non ne parlano quasi mai. Sono più importanti le veline a destra e le regole per le primarie per il PD. Evviva.

24 giugno 2009

La conanna all'Iran e la fretta di parlare con Damasco

La condanna di Obama per le violenze a Teheran complica la possibilità di dialogare con gli iraniani - almeno nel futuro immediato. In Iran Moshen Rezai, già capo dei pasdaran, ha ritirato il ricorso elettorale. Rezai è il più vicino ai gruppi che hanno vinto le elezioni e, scrive il New York Times, è stato pressato molto da vicino per mollare la presa. Gli altri continuao a protestare e a chiedere il rilascio degli arrestati. Nel frattempo, si avvicina il dialogo con la Siria: presto un inviato ufficiale a Damasco. Non poteva essere altrimenti: qualche passo in avanti nei vari complicati scenari mediorientali va fatto - e sfilare la Siria dal gioco con l'Iran, Hezbollah e Hamas sembra essere l'unica strada percorribile.

20 giugno 2009

Il video del giorno...Super Barack

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Le partite a scacchi di Obama, dalla finanza alla sanità

Ieri è apparso questo articolo di uno di noi su "L'altro", il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. L'idea è questa: è vero, la sua proposta di regolamentazione finanziaria ha diversi difetti (parecchi); ma li vero punto di svolta è quello di cui parliamo qui sotto, la riforma sanitaria. E' un'unica grande partita a scacchi, nella quale Obama ha scelto (o è stato scelto) i suoi poteri forti di riferimento, le banche (contro hedge fund e settore assicurativo, come lamenta ieri Luigi Zingales sul Sole24ore). Se ne esce bene qui, ha segnato un punto sul serio; poi dovrà fare in fretta con il problema del lavoro, perché nonostante le cifre sembrano dire che va un po' meglio è lo stesso Presidente a dirsi preoccupato pubblicamente.

Fuoco alle polveri, ecco il piano sanità democratico

Un'assicurazione pubblica che competa con le private (abbassando i costi), divieto di rifiutare l'assicurazione a causa dello stato di salute passato degli individui, un sistema di sussidi a chi non si può permettere l'assicurazione, più persone assicurate da Medicare, prevenzione, diminuzione del prezzo dei farmaci. Ecco in sintesi la proposta di riforma della Snaità Usa - senza i particolari, che come sempre sono il succo delle leggi complicate come quelle che modificano il sistema sanitario. Qui uno schema del NYT con qualche particolare in più, qui, per i masochisti, il sito della commissione che ha elaborato il progetto (che trovate in pdf). Il piano è chiaramente penalizzante per le assicurazioni, mentre le case farmaceutiche, pure penalizzate, sono d'accordo per una riduzione dei costi.
Il nodo cruciale di tutto, in un anno come questo e con il deficit alle stelle, è quello del prezzo della riforma. Ecco un tema sul quale, senza fare la figura di chi vuole impedire l'allargamento della copertura sanitaria, le lobby e i repubblicani (ma anche qualche democratico) potranno aggrapparsi: non ci sono i soldi per tutto questo. La ricetta repubblicana è quella di aumentare la concorrenza e aumentare gli sgravi fiscali per le spese mediche sostenute. Ad oggi non ha funzionato granché visto che il numero dei senza sanità cresce in maniera costante da anni. Quest'anno, con la crisi, c'è un boom degli abbandoni da parte di piccole compagnie che cancellano il loro piano assicurativo e di singoli cittadini. Eppure, ecco una battaglia, LA battaglia, che Obama potrebbe perdere. Su questo il presidente rischia grosso (come spiega Politico). Ieri quello che è stato il padrino politico di Obama, l'ex senatore Daschle, trombato alla Sanità per un affare di rimborsi, ha suggerito al presidente - se vuole vincere la guerra - di non immettere nel mercato sanitario il gigante pubblico a fare concorrenza ai privati. Staremo a vedere. Tutti, ma proprio tutti, sentono la mancanza del vecchio e malato Ted Kennedy, che la riforma l'avrebbe portata a casa. In tutto questo, Washington Post ci segnala che l'America è a corto di medici di base. E senza quelli, allargare la copertura sanitaria, è impossibile. Per visitare più pazienti servono più dottori.

19 giugno 2009

La guerra della Sanità


Ecco due minuti di videoblog di Michael Tomasky sulla riforma sanitaria. Inutile dire che il tema cruciale è la quantità di pubblico prevista nella riforma. L'idea cruciale è quella di creare una compagnia assicurativa pubblica che entri nel mercato sanitario e competa con i privati, contribuendo all'abbassamento dei premi. Il problema è che con tanta presenza di pubblico in economia, i democratici hanno paura di esagerare. Tomsky prevede che una parte della proposta verrà ridimensionata su spinta della lobby sanitaria e dell'opposizione. Qui lo schema definitivo sul tema proposto dal New York Times: diverse opzioni, chi le sostiene, quanto costa cosa e come si paga. Una considerazione che vale per molte delle questioni in discussione a Washington potrebbe essere la seguente: il rischio grosso è un annacquamento di ciascuna delle scelte dell'amministrazione Obama, che già tendono ad essere morigerate. Sanità, ambiente, regole sono temi cruciali e servono scelte chiare, ben costruite. Il passaggio in Congresso - pensate alle nostre leggi finanziarie, a come entrano e, poi, a come escono dalle Camere - rischia di stravolgerle. Il senatore preoccupato perché il suo è uno Stato conservatore, quello che prende i soldi dalla lobby, ecc. potrebbero lavorare a diluire le riforme. Sarebbe un peccato.

18 giugno 2009

Finanza e sondaggi.....

Ecco un articolo del Washington post che spiega per filo e per segno come e perché la riforma della finanza è deludente. Volcker avrebbe voluto il ritorno del Glass-Steagal act abolito da Clinton (quello che separa banche d'affari e di risparmio). Non è stato accontentato. Summers e Geithner pure prevedevano controlli più severi e regole più strette, ma lobbisti e congressmen potenti hanno fatto in modo di far saltare le parti più aspre della legge. L'articolo è fantastico, ci sono le date e i nomi di coloro che hanno fatto pressione. Alla fine, per chi non avesse letto altro, la riforma prevede molti poteri di controllo alla Fed, più poteri al governo in caso di crisi e una agenzia di difesa dei consumatori ad hoc. Siamo sinceri, il presidenti ha usato toni enfatici per una riforma decente ma non particolarmente coraggiosa. Il Time si chiede: ma questa riforma è abbastanza riformatrice?
E veniamo ai sondaggi: oggi anche il WSJ ne pubblica uno, che non diverge di molto da quello del NYT qui sotto. C'è preoccupazione sul deficit, ma in fondo sono trent'anni che la propaganda di tutti è sulla necessità di non spendere. E' normale che quando il buco cresce la preoccupazione aumenti. Il Pew pubblica una nuova rilevazione che continua a vedere Obama molto in alto su quasi tutto: in alcuni casi come la politica estera, anche in crescita (eccolo qua).

Primo sondaggio mediocre (ma non troppo)

Il Nyt pubblica oggi un sondaggio che rileva un atteggiamento critico nei confronti del presidente Obama su deficit e scelte sull'industria dell'auto. Buona la performance in politica estera e, tutto sommato, sul piano sanità. Su alcuni temi il pubblico dice di non sapernde abbastanza in una percentuale tale che non si può ancora capire quale sarà l'atteggiamento quando, ad esempio, lo scontro sulla sanità entrerà nel vivo. Tutte, ma proprio tutte, le truppe di Obama sui territori si stanno preparando a combattere la battaglia e a diffondere il verbo (arrivano una o due mail al giorno). Vedremo se la mobilitazione permanente della base di Obama darà i suoi effetti al prossimo sondaggio.

Clinton, la Sanità e le regole finanziarie

Hillary è caduta e si è rotta un gomito. Ma questa è una notizia minore. Quelle vere di politica interna Usa - che stiamo un poco trascurando - sono il dibattito acceso sulla riforma sanitaria e la presentazione delle regole per la finanza. C'è anche il pacchetto ambiente in discussione in Congresso. L'amministrazione Obama, insomma, procede nell'applicazione dle programma. Resta da vedere se, come e quando il Congresso voterà su questi tre grandi temi e c'è da studiare con attenzione ciascuna di queste per capire bene se si tratta di grandi o piccole riforme. Sulla finanza, ecco un commento del NYT che dice abbastanza chiaro che non siamo di fronte a una svolta epocale: niente di paragonabile a quanto fece Roosevelt, è il titolo. Supervisione contro cambiamento è invece il titolo da The Nation. Il tema è grande e difficile, la chiave di lettura, forse, in due fattori: gli uomini che governano l'economia Usa in questo momento (Gethner e Summers) sono figli del sistema che dovrebero riformare, Obama e gli altri hanno paura, in un momento così, di andare ad uno scontro vero con un settore, quello finanziario che, anche indebolito, è in grado di produrre tempeste e cataclismi e di far schiantare tutta la baracca.

17 giugno 2009

Lo scontro di potere a Teheran come chiave di lettura

Che succede in Iran? E come mai, dopo che già altre volte l'ala riformista era stata battuta nell'urna, stavolta la risposta della piazza e di una parte dell'establishement è stata così dura. Una delle novità clamorose è stata la scelta di Khamenei, la Guida suprema della rivoluzione, di accogliere in fretta un risultato poco credibile. Con quella scelta e con il successivo passo indietro, l'ayatollah ha incrinato la sua presa sul potere.
Si tratta di una novità, a Teheran non c'è più una figura dal potere assoluto, super partes. In questo post sui nostri approfondimenti - frutto degli appunti presi a un convegno del Centro studi americani a Roma - si spiega cos'è che ha portato Khamenei in questa nuova posizione. In breve si tratta dell'alleanza con l'ala militare radicale del potere. L'equilibrio tra le vari fazioni e i poteri economici e corporativi di Teheran si sarebbe insomma rotto. Niente, ripetono tutti, sarà più com'era, il regime dovrà dare un ulteriore stretta autoritaria, oppure scegliere una lenta transizione riformatrice o ancora implodere. Mousavi, con la spinta che gli si è raccolta intorno, a prescindere dalla sua piattaforma politica, rappresenta l'ipotesi della transizione. Qui gli appunti dall'incontro di Roma al quale prendevano parte esperti, diplomatici e rappresentanti iraniani e israeliani. Questo il rapporto dell'International crisis group a cui si fa riferimento negli appunti (il titolo in sintesi è: su cosa vogliono trattare gli iraniani con gli Usa e quali condizioni pongono).
Tra le chiavi interessanti c'è quella del petrolio: Ahmadinejad e l'ala radicale hanno messo le mani sul ministero del petrolio dopo due tentativi bloccati dal Parlamento (che ratifica la nomina di quel solo ministero). Prima il più importante strumento dle potere economico era nelle mani di Rafsanjani. Ora l'ala politic radicale del regime non vuole perdere questo strumento di potere clientelare e Rafsanjani spinge per riprenderselo. Ecco l'articolo che parla di questo.

16 giugno 2009

I dati elettorali iraniani....


L'immagine qui sopra è ripresa da Tehranbureau.com e secondo chi l'ha elaborata dimostrerebbe i brogli. La linea tracciata è il frutto del rapporto tra i voti presi da Ahmadinejad e quelli presi da Musavi nelle varie province. Il fatto che la linea non conosca curve segnala che i dati del Ministero degli Interni attribuiscono sostanzialmente sempre lo stesso rapporto tra i voti di un candidato e dell'altro. In effetti si tratta di un risultato poco credibile: l'azero Musavi prende gli stessi voti nella parte azera del Paese e Teheran che non in altre aree dove sono forti radicali e militari. Oggi un convegno al Centro di studi americani di Roma. Domani un resoconto.

15 giugno 2009

Una tesi controcorrente

Due esperti americani, di cui uno del think tank New America Foundation, hanno coordinato un sondaggio realizzato la scorsa settimana tra gli elettori iraniani. Ebbene, i risultati erano straordinariamente simili a quelli usciti poi ufficialmente dalle urne. Sempre nello stesso think tank progressista (ma molto meno ammanicato del Center for American Progress) lavora Flynt Leverett che gli iraniani li conosce bene per averci negoziato insieme l'invasione dell'Afghanistan del 2001. Se state facendo una faccia strana vuol dire che ci avete letto poco: sì gli americani si misero d'accordo con gli iraniani per invadere l'Afghanistan. Si fecero dare per esempio una lista seria di obiettivi da colpire. Poi li scaricarono con il discorso sull'asse del male. Ma ritorniamo a Flynt: su Politico, dice chiaramente che "Ahmadinejad ha vinto. Fatevene una ragione". Lui è un sostenitore del dialogo ad ogni costo e a tutto campo: ma qui sostiene la sua tesi con alcuni dati di fatto su cui vale la pena riflettere.
Il tutto è una vera gatta da pelare per Obama. Leggete l'editoriale del Washington Post: dopo aver fatto giustamente notare che, al di là di tutto, viste le attività di censura, intimidazione e selezione dei candidati le elezioni non sono comunque libere, consiglia al presidente di non farla passare troppo liscia al duo Khamenei/Ahmadinejad. Di sicuro le manifestazioni di massa di oggi non aiutano la presidenza americana che si ritrova sempre più in imbarazzo. Un Iran instabile, in preda ad una rivolta contro il nuovo potere militare-radicale, non conviene agli americani. Paradossalmente, chiunque sia al governo a Teheran avrebbe interesse a fare un accordo, quantomeno sull'Afpak. L'importante è che questo qualcuno sia veramente al potere.

Caos a Tehran, qualche analisi

Ecco cosa hanno risposto alcuni esperti iraniani e di Iran contattati dal blog di RCW. Sono esperti che non amano gli ayatollah ma che tendono ad avere un occhio rigoroso. Tra gli altri Ali Alfoneh spiega che le elezioni sono sempre un esercizio di frode "sofisticato ed elegante", ma che stavolta la frode sembra massiccia e brutale. Altri parlano di colpo di Stato militare mascherato. Slate commenta che anche poca democrazia è un'ottima cosa e gli eventi iraniani lo dimostrano. Qui un ottimo servizio di Foreign policy che suggerisce 10 film che spiegano l'Iran contemporaneo. Tutti, ma proprio tutti gli editorialisti americani, commentano la difficoltà di Obama.

Summers e Geithner sulla regole per la finanza e Reich sulla Sanità

Ecco l'articolo comparso sul Washington Post dei due boss dell'economia pubblica a Washington. La politica interna sembra essere concentrata su questo tema e sulla vicenda della riforma sanitaria. Certo, queste sono ore da politica estera. Qui invece, l'ex Segretario al lavoro di Clinton e professore di economia a Berkeley Robert Reich che sostiene che lo scontro sulla sanità è al via e che, in queste settimane, vedremo se e quanto Obama avrà la forza e the will di portare avanti il suo ambizioso progetto.

Che succede a Teheran

Prima di tutto guardate questo video del linciaggio di un poliziotto. La scena iniziale in cui arriva insieme ai suoi colleghi in moto cercando di investire la folla fa venire i brividi e ricorderà forse agli italiani più grandi certi atteggiamenti squadristi nostrani.
Ma veniamo all'analisi. Più di una fonte parla di un golpe neanche troppo strisciante: le elezioni sono state truccate (sul blog di Juan Cole potete capire meglio come) dall'ala militare dura che fa capo a una parte dei Basij e dei Pasdaran cioè le milizie che sono il brodo di coltura del gruppo di Ahmadinejad. Questo, per emarginare l'elite teocratica finora più o meno al potere. In questo articolo in italiano di Bijan Zarmandili si capisce meglio quale sia lo scontro e la posta in gioco. Gary Sick è stato il maggiore consigliere sull'Iran per Ford e Carter tra il 1976 ed il 1981: durante la rivoluzione islamica, i documenti hanno provato, ci vide più lungo degli altri capendo che era una cosa diversa dai movimenti di liberazione nazionale d'ispirazione marxista. Sul suo blog ora mette in fila una serie di fatti (dagli interventi armati a quelli sulle reti di telecomunicazioni) che legittimano la teoria del colpo di stato. L'opposizione iraniana è in una brutta situazione: se non cerca lo scontro perderà credibilità, ma dallo scontro può uscire sconfitta. Sarebbe una "Tienanmen iraniana" come sostiene Nicholas Kristof sul suo blog.
Comunque vada, siamo forse ad un punto di svolta. Un regime iraniano a guida militare, confermato al potere con elezioni dubbie sarebbe una gatta difficile da pelare per l'amministrazione Obama: già immaginiamo cosa direbbero in caso di proseguimento del dialogo gli israeliani, i neoconservatori, gli iraniani esiliati negli Stati Uniti ma anche i democratici sensibili al tema dei diritti umani.

14 giugno 2009

Iran e Corea, i nodi vengono al pettine...

Corea del Nord e Iran sono le prime due gatte da pelare di politica estera per la nuova amministra- zione. La prima non rappresenta una vera minaccia, un nemico credibile, ma è però una sfida d'immagine per la nuova amministrazione. Nel caso di Pyongyang raggiungere l'unanimità in consiglio di sicurezza è un fatto scontato, avere la Cina che preme sul regime è una certezza (Pechino non vuole problemi ai confini e vorrebbe evitare di dover accogliere un flusso di profughi dalla Corea più grande di quanto già non accada). Eppure avere un dittatore da operetta che ti prende in giro e ti minaccia con il nucleare è una sfida di immagine terribile per un presidente democratico che cerca di intraprendere la strada del dialogo. Presto qualcuno chiederà conto a Obama della sua moribidezza. In questo caso, il democratico ha dalla sua un atteggiamento di Bush molto simile e multilaterale.
L'Iran è tutta un'altra cosa. Specie dopo le elezioni di ieri e il modo in cui se ne sta uscendo. Andare dietro a Mousavi con il rischio di far saltare ogni ipotesi di dialogo? Oppure chiudere gli occhi di fronte a un mezzo colpo di Stato? A questo punto vicenda iraniana somiglia molto alla libanese del dopo Hariri padre, ma senza le complicazioni religiose del piccolo Paese mediterraneo. C'è un pezzo di società urbana, giovane e aperta al mondo che spinge per un cambio di regime e una periferia del Paese che segue l'ala dura - per fede politica, religiosa, brogli e capacità di gestione clientelare del potere. Ahmadinejad, si disse, vinse la prima volta grazie al voto dei mostazafin, i senza scarpe, i diseredati, con la promessa di una riforma economica non arrivata. La reazione di Mousavi è nuova, così come la stretta dell'ala dura. Segno di una situazione diventata difficile da gestire all'interno di un regime democratico con forti caratteristiche autoritarie. Probabile che Obama resterà a guardare, lavorerà per aiutare Mousavi e i suoi nell'ombra ma trattando - se possibile - con Ahmadinejad. Nel frattempo aspettatevi pressioni su Israele e una mano tesissima alla Siria. Sfilare Damasco da gioco di Teheran sarebbe un buon risultato.

12 giugno 2009

Teheran come Miami

"Se Teheran avesse il mare sarebbe una piccola Miami" potrebbe concludere Lino Banfi a commento delle elezioni di oggi in Iran. Si vota di venerdì perchè ovviamente quello è il giorno del riposo per gli islamici anche se noi abitanti nella "civiltà cristiana" pensiamo che tutto il mondo si fermi la domenica. Su Al-Jazeera in inglese trovate la cronaca: pare che ci sia parecchia gente in fila per votare. Sarebbe una buona notizia, visto che l'altra volta la bassa affluenza favorì la vittoria di Ahmadinejad. Ma le elezioni iraniane non sono una cosa normale. L'esperto del Carnegie Karim Sadjadpour, uno dei migliori esperti di Iran a Washington, spiega su Foreign Policy la contesa in termini americani. Il candidato riformista in pole-position è Mousavì che può essere considerato il Kerry persiano, lo voteranno quelli che non sopportano più Ahmadinejad-Bush. Gli altri candidati sono rispettivamente il John McCain e il Ralph Nader della situazione. Ma il paragone con la Florida è dato dal fatto che le elezioni, comunque vada, saranno molto poco corrette: a Mousavì servirebbe un margine di 5 milioni di voti per superare tutti gli ostacoli e le truffe che metteranno in campo gli altri.
Ah, a proposito di paragoni con l'America, i poteri del presidente iraniano sono simili a quelli del vicepresidente Usa: ma non quelli che ha ora Biden, bensì quelli che aveva il suo predecessore. Chiunque sarà eletto, quindi, sarà solo un interlocutore minore per Obama che, volente o nolente, dovrà convincere prima di tutto il duro Khamenei.

11 giugno 2009

Le elezioni in Iran e il dialogo con gli Usa

Ecco il pezzo che esce domani su Liberazione. Ci trovate una rassegna in pillole di molte cose pubblicate dai vari think-tank e centri studi. Dopo i risultati pubblicheremo anche i link alle cose più interessanti (ma mica parlano tutti inglese in Italia no?)

Un messaggio di capodanno nel quale si parlava della «Repubblica islamica dell’Iran». Poi il discorso del Cairo e i riferimenti al programma nucleare di Teheran e il riconoscimento del diritto a possedere l’energia atomica a scopo civile.
Il dialogo con i nemici era stato uno degli azzardi della campagna elettorale di Obama. Non è stato lo strumento vincente, ma neppure un autogol. E poi, nello staff originario del presidente ci credevano davvero. Per ristabilire la leadership americana, ma anche per risolvere problemi immediati in Iraq, Afghanistan e altrove. Tutti sapevano che, senza parlare con siriani ed iraniani non c’era stabilizzazione del Paese occupato nel 2003, normalizzazione libanese, dialogo tra palestinesi e israeliani. Teheran e Damasco non hanno abbastanza potere da cambiare tutto nell’area più intricata della Terra, ma possono giocare un ruolo importante. E lo sanno. (il pezzo continua qui)

Sta arrivando la riforma della sanità

di Valeria Fabbrini
Talvolta non ce ne rendiamo conto ma come scriveva Schopenhauer i nove decimi della nostra felicità si basano esclusivamente sulla salute e semplicemente grazie a questa ogni cosa diventa fonte di godimento. Per questo quello sulla riforma della sanità è forse uno dei progetti di Barack Obama che coinvolgono maggiormente, anche se ad alcuni avvedduti economisti il sogno di una riforma del sistema statunitense potrebbe apparire un miraggio e quasi una “mission impossibile”.
Per ora se ne discute in due commissioni del congresso: quella delle finanze e quella denominata HELP (Health, Education, Labor and Pensions) presieduta da Ted Kennedy che ha presentato la sua proposta due giorni fa scatenando grandi resistenze. I due progetti sono piuttosto simili anche se il primo è più moderato ed il secondo più radicale. L'amministrazione democratica intende perseguire due obiettivi: da un lato ridurre l’ingente spesa sanitaria americana ( in % del Pil e pro-capite) e dall'altro estendere le coperture sanitarie ai 44 milioni di cittadini americani che oggi risultano scoperti. Ciò che appare particolarmente difficile agli occhi degli studiosi di un settore economico così atipico come quello sanitario è il riuscire a contrastare i grandi assicuratori e gli ospedali privati che vivono dell’attuale business della salute ( che ammonta a circa il 18% del Pil). Questo business costituisce una torta eccezionale di cui si nutrono questi soggetti da moltissimo tempo, anche grazie a domanda indotta e cure costose ed inappropriate per coloro che sono coperti. Questi soggetti hanno paura che la creazione di un sistema assicurativo pubblico ( come il SSN italiano o anglo – canadese) possa rompere gli intrecci di affari che si sviluppano tra assicuratori privati ( che stipulano le polizze collettive con le imprese private che coprono i propri dipendenti e che deducono dall’imponibile i premi versati) e gli ospedali che forniscono i servizi sanitari agli assicurati.
Abbiamo cercato di capire di più dei progetti dell'amministrazione Obama e dei democratici del Congresso riguardo la sanità, uno dei prossimi dossier che saranno all'ordine del giorno. Cliccate qui per continuare.

10 giugno 2009

Uno zar per fissare gli stipendi dei manager

Per coloro che credono che “Washington non deve mettere il becco nelle cose che ci riguardano” - e sono tanti - non sarà una bella notizia. L’amministrazione Obama ha fatto alcune scelte simboliche sulle paghe dei manager di quelle che la destra potrà chiamare «eccesso di regolamentazione». Il presidente ha infatti nominato Kenneth Feinberg, un avvocato di Washington che ha lavorato sui compensi alle vittime dell’11 settembre, “zar degli stipendi”. Feinberg avrà potere su 175 manager di sette gruppi statunitensi che hanno ricevuto miliardi di dollari di aiuti da parte dello Stato. Tra gli amministratori delegati e gli altri dirigenti che dovranno fare i conti con i limiti a stipendi e bonus imposti dalle autorità federali, anche i capi di General Motors, Bank of America e Citigroup. In alcuni casi Feinberg stabilirà l’esatto compenso del dirigente, in altri, lavorerà a stabilire la struttura del compenso da attribuire al management. Una delle cause che ha determinato la crisi finanziaria è infatti l’eccessiva propensione al rischio di finanzieri e dirigenti che ricevevano compensi sulla base dei dividendi che riuscivano a distribuire agli azionisti. L’obbiettivo diventava così la crescita delle azioni o il risultato positivo nel trimestre e non la crescita equilibrata dell’impresa nel lungo termine. La scelta di Obama aprirà un nuovo dibattito sull'interventismo pubblico e sugli eccessi di regole. Se la guardiamo dal punto di vista della ricerca del consenso, l'idea di mettere uno che mette un freno al corporate greed di cui tutti hanno parlato all'indomani del tonfo di Wall street, è probabilmente una mossa populista azzeccata. La legge che imponeva la nomina di uno zar è quella che approvava il bailout: i senatori hanno voluto inserire la norma punitiva contro il parere del'amministrazione (diciamo del Segretario al Tesoro Geithner).

9 giugno 2009

Un razzista in Europa

Questo pezzo dal blog di Fabio Cavalera dal titolo "Io, razziata a Strasburgo" basta e avanza per capire che aria tira in Europa; il nostro Martino Mazzonis approfondisce il punto di vista in questo post (l'Europa di vent'anni fa è stravolta, sia dal punto di vista politico che istituzionale).

7 giugno 2009

Il discorso di Obama e un'intervista in italiano

Qui il discorso di Obama in italiano e qui un'intervista a Olivier Roy, islamologo francese intervistato da Liberazione - c'è anche un'intervista a Gilles Kepel, ma per come è costruito il sito, è impossibile copiarla: a volte si è perdenti dentro...domani la carico.

6 giugno 2009

Il Cairo, l'Islam e Ramadan

E visto che proviamo a dare ogni punto di vista possibile, ecco Tariq Ramadan dal suo sito. Tra le figure chiave del dialogo Islam-Occidente, Ramadan ha lavorato e lavora in diverse grandi università europee. Nipote del fondatore dei Fratelli musulmani, è nato in Svizzera dopo la fuga dall'Egitto della famiglia conseguente messa al bando dell'organizzazione politico religiosa. Il giorno prima del discorso di Obama al Cairo aveva diffuso un testo nel quale faceva il solito elenco di domande. Quello che, per dirla in maniera rozza, fanno, una volta per uno, i sostenitori di Israele e Palestina (Io sono pronto a..., ma loro sono pronti a...Io non faccio questo, se loro non...Puoi dire a tua madre, Per piacere di a tuo padre...). Non era così rozzo, ma naturalmente. Il testo successivo al discorso, Ramadan è più cauto nelle critiche ed entusiasta negli elogi. "Sia la scelta delle parole che la sostanza - scrive - sono importanti e nuovi". L'invito rivolto ai musulmani è quello di "prendere Obama in parola invece di assumere un'attitudine passiva o vittimista". La fine del noi e loro apre delle dinamiche interessanti nel mondo musulmano. Sarà difficile che le elezioni libanesi e iraniane facciano in tempo a registrare le novità, ma staremo comunque a vedere.

Ancora su "Obama va a Maometto". Parla Daniel Levy

Daniel Levy è una delle menti brillanti della Washington di oggi. E' un giovane ma esperto ricercatore della New America Foundation, a cavallo tra America (dove vive), Europa e Israele. LE radici sono in tre luoghi diversi, e questo aiuta (qui un suo profilo). Attualmente è direttore della Prospects for Peace Initiative della The Century Foundation e direttore della Middle East Initiative della New America Foundation. Levy è stato uno dei nostri interlocutori nel nostro viaggio americano del 2008.

In questo link trovate un'analisi che noi condividiamo sul discorso di Barack Obama al Cairo. Non è il caso di cercare nelle pieghe di un discorso del genere le "prescrizioni di policy" che possano individuare il percorso che dovrebbe portare alla pace in Medio Oriente. Levy sottolinea giustamente come si tratti di un raffinato esercizio di accumulazione di capitale politico (quella che noi chiamavamo in questo post "la campagna elettorale globale di Barack Obama"), indirizzato alla costruzione di una spazio politico - quello del campo della pace - che non è scontato esista e non è scontato esista grazie all'impegno americano (abbiamo già un'icona di questo processo, l'immagine inventata da Hamas nella quale si vedono i propri miliziani che sono si a volto coperto e con il fucile, ma sono rappresentati nell'atto di ascoltare Obama).

Levy presenta 10 tesi - che vi invitiamo a leggere seguendo il link qui sopra - la prima delle quali è intitolata "The Mother of All Resets". Anche lui, come noi, sottolinea l'abilità di Obama di spiegare le "ragioni degli altri" non con fare ecumenico ma come strumento politico. Lo ha fatto spiegando il suo punto di vista - e quindi dell'America - sull'11 settembre, al fine di ricordare agli arabi cosa effettivamente abbia significato nella vita degli americani; ha mostrato piena comprensione per il senso di umiliazione che pervade le vite di milioni di palestinesi. Scrive Levy: "recalling the 60-year “pain of dislocation,” the “wait in refugee camps” (without in the same breath emasculating the refugees of any rights). He spoke of humiliation, occupation, and an intolerable situation – in other words, Palestinian daily reality".

E' una tecnica oratoria prettamente Obamiana: raccontare la vita degli altri, raccontarla anche a chi non la capisce (e lo stesso ha fatto raccontando al mondo arabo le ragioni di Israele). Quando finirà l'accumulazione di questo capitale politico osserveremo la capictà di passare dalla "politics" alle "policy", come dicono gli americani (scrive Levy: for everyone the proof of the pudding will be in the eating, what comes next and whether policy changes on specific issues). Ora però era il tempo della politica.

5 giugno 2009

Obama al Cairo, the day after

Beh? Come è andato il discorso di Obama? Ecco un David Brooks dal Nyt che rimanda il tono delle parole usate da Obama allo stile della politica di Chicago, pragmatica più che altrove. Brooks è spesso critico, stavolta il discorso sembra essergli piaciuto. Dal Guardian, Ahdaf Soueif ci spiega perché l'aver messo al centro la fede (le fedi) sia, per una parte dell'auditorio - donne? giovani? laici? - una grande delusione. E' la più classica delle tensioni tra realismo e idealismo: dire in faccia tutto a tutti o non dire nulla? In fondo Obama ha detto qualcosa a molti, nominato dei problemi - il tema delle donne e quello della democrazia - in forma nuova per un leader ospite in un Paese dittatoriale. Politico ci spiega che il discorso era mirato anche a spuntare le armi di Osama, smontare alcuni luoghi comuni della retorica qaedista (la basi permanenti in Iraq e Afghanistan, ad esempio).
Qui un commento “tecnico", quello dell'ex ambasciatore in Siria e Israele Edward P. Djerejian dal council on foreign relations. E qua l'articolo di Tzipi Livni sul discorso. Una opinione furiosa? Quella di Krauthammer dal Post. L'idea sembra un po' Israele non si tocca: “L'America deve smettere di dare diktat, dice Obama - spiega il columnist - e allora perché non usa la stessa tecnica con Israele?". Abraham Yehoshua sulla Stampa, spiega invece che Obama è l'amico che lui vorrebbe al fianco. Uno che, quando fai degli errori, te lo dice. Noi siamo d'accordo con lui.

4 giugno 2009

Primissime reazioni al discorso

Hamas parla, come da tempo, con voci diverse. L'ala moderata, probabilmente maggioritaria tra la gente, tende a valutare positivamente il discorso. I governanti di Gaza, più duri, a dire che non è abbastanza, che Israele va condannato, l'Iraq abbandonato - come del resto Hezbollah. Un classico di ogni formazione politica estrema, che si tratti della sinistra, della destra o di religiosi. Serve sempre di più. A volte, naturalmente, delle ragioni per chiedere di più ci sono. In molti parlano di discorso storico (il portavoce del governo iracheno) e altri di discorso importante (il debole presidente Mahmoud Abbas). Dai vertici iraniani tiro ad alzo zero. Già prima del discorso Ahmadinejad era tornato a parlare di olocausto come di "grande inganno". Non esattamente lo spirito del mettersi il passato alle spalle invocato da Obama. E' di ieri la notizia che presto militari Usa andranno a Damasco a discutere di Iraq. Una cosa impensabile fino a sei mesi fa. Un segnale - timido, per carità - che non c'è solo la politica dei discorsi.

Obama al Cairo

"E' più facile iniziare le guerre che concluderle. E' più facile dare la colpa agli altri che guardarsi dentro; vedere ciò che è diverso piuttosto che cercare nell'altro ciò che condividiamo. Ma dovremmo scegliere la strada giusta, non quella più facile. C'è una regola che sta al cuore di ogni religione - che dobbiamo fare agli altri ciò che vorremmo che loro facessero a noi. E' una fede che trascende le nazioni e i popoli (..) una fede nelle altre persone ed è quello che mi ha portato qui oggi." I prossimi anni giudicheranno se il discorso di oggi al Cairo sarà studiato sui libri di storia, come quello di Philadelphia di cui vi parlammo qui. Come altre volte Obama ha parlato di politica parlando della vita. Ma già il fatto che fosse lì, a porgere una mano al mondo islamico, era un fatto storico. Non è stata solo retorica, c'era molta politica che proviamo a leggere anche sulla base di quello che abbiamo sentito dire da parte della foreign policy community americana.
1. "Nel combattere l'estremismo violento l'Islam non è parte del problema - è una parte importante nella promozione della pace". Gli Stati Uniti vengono presentati come una nazione anche islamica. L'Islam viene reinterpretato come fonte di tolleranza e innovazione. Viene recuperata la storia dell'Andalusia e vengono citati i grandi paesi mussulmani che hanno eletto donne alla loro guida.
2. I palestinesi "soffrono umiliazioni quotidiane - grandi e piccole - causate dall'occupazione. Che non ci siano dubbi: la loro situazione è intollerabile: l'America non volterà le spalle alla legittima aspirazione dei palestinesi per la dignità, le opportunità e un proprio stato". E poi parole molto dure contro la sofferenza inflitta a Gaza e contro la colonizzazione accanto a quelle contro chi nega l'Olocausto e il diritto di Israele ad esistere.
3."Hamas ha il sostegno di alcuni palestinesi, ma anche delle responsabilità". Dopo il riconoscimento politico tuttavia vengono ripetute le solite condizioni che hanno bloccato il processo fino ad oggi. Hamas ha però finora reagito positivamente al discorso, giudicandolo un'apertura.
4. Sull'Iran si fa un importante gesto simbolico riconoscendo il ruolo Usa nel rovesciamento di un governo "democraticamente eletto", cioè quello di Mossadeq negli anni '50. La risposta al problema nucleare è il rafforzamento del regime non-proliferatorio per tutti e la possibilità di usare l'energia a scopi pacifici. Parole che potrebbero avere un impatto sulla campagna per le presidenziali iraniane.
5. "Le elezioni da sole non fanno la democrazia". Ma non solo: "Ogni nazione da vita a questo principio basandosi sulle sue tradizioni" e poi cita le democrazie asiatiche e quelle islamiche.
6. "La questione femminile non è solo un problema dell'Islam". Non è importante la lotta al velo, anzi. E' importante la lotta all'analfabetismo femminile. "Non penso che le donne debbano fare le stesse scelte degli uomini per essere uguali a loro".
7. Sulla globalizzazione:"in tutti i paesi - compreso il mio - questo cambiamento può portare paura. Paura che a causa della modernità perderemo il controllo delle nostre scelte economiche, e politiche ma soprattutto che perderemo il controllo della nostra identità".

In generale, accanto alla ripetizione di alcuni mantra (vedi il post qui sotto sul tema dell'Afghanistan e dell'Iraq) un discorso che non solo tende una mano al mondo islamico ma che esclude che l'occidente abbia il monopolio della modernità e che ridefinisce la modernità occidentale in chiave liberal. Obama infatti indica anche una serie di problemi aperti all'interno della stessa civiltà occidentale: primo fra tutti quello dell'emancipazione femminile. Infine, un discorso che può rimanere nella storia come tentativo molto ambizioso di usare l'opinione pubblica e la costruzione di consenso di massa come fattore di accellerazione della diplomazia. Parlare all'opinione pubblica mediorientale per convincere certi leader a saltare l'ostacolo. Anche qui, forse, Obama supera una volta per tutte il Novecento.

Instant Analysis del discorso di Obama. "Obama va a Maometto"

Riportiamo e ordiniamo qui i commenti registrati con i nostri amici di Facebook durante e subito dopo il discorso di Obama.

1. C'era tanta tanta America nel discorso. L'America come paese universale e paese della sintesi politica delle diversità (E Pluribus Unum); C'era tanta America "eccezionale" nell'impianto culturale del discorso (America paese universale, quindi futuro del mondo);

2. Obama è sempre nel merito delle questioni (i sette punti che ha toccato), anche con coraggio e fermezza politica: Iran, Hamas, Israele, stato palestinese.. Secondo lui l'Iran può aspirare legittimamente al nucleare civile (avrà un peso questo discorso nella campagna elettorale iraniana? chissà); ad Hamas, se volesse, è stata fornita una sponda per divenire un interlocutore politico; su Israele molte parole di amicizia ma fermezza nel dire che bisogna interrompere la politica degli insediamenti; sullo stato palestinese molta chiarezza;

3. Efficacia retorica obamiana doc: spiegare gli arabi agli americani e gli americani agli arabi, (nonché il punto di vista di Israele) come fece a Filadelfia spiegando ai bianchi la rabbia della comunità nera e ai neri la paura dei bianchi;

4. Sull'Afghanistan sempre lo stesso mantra: guerra buona vs guerra cattiva (l'Iraq);

5. finale a effetto con le tre citazioni da Talmud, Bibbia e Corano. Complimenti agli sceneggiatori, ma anche tanta sostanza.


Comunque tanta roba al fuoco, anche se i nostri media parleranno solo di "peace and love", mentre la politica c'era (e tutti i giorni c'è anche tanta real politik). "E' partita una lenta campagna elettorale globale per vincere il consenso ovunque nel mondo" (copyright Gianluca Baccanico). Adesso la complessità della politica e degli interessi si rimette giustamente in moto, ma un punto è stato segnato.

Il testo integrale del discorso: http://www.spiegel.de/international/world/0,1518,628538,00.html

Obama va a Maometto

Live, now

http://www.whitehouse.gov/live/

3 giugno 2009

Cairo meno uno

Obama anticipa alla Bbc ciò che dirà al Cairo e che noi vi avevamo già anticipato: nulla di sconvolgente, basta già il fatto che lui vada là e faccia vedere che gli Usa si pongono il problema del rapporto con l'Islam. Rivendica il fatto di avere parenti mussulmani e che nel suo Paese ci sono più seguaci del Profeta di quanti non ce ne siano in tante nazioni a maggioranza mussulmana. Sul processo di pace non si sbottona, e sarà difficile che lo faccia visto che la diplomazia è in corso. Sull'Iran ribadisce una cosa importante: entro l'anno non vuole vedere la fine del processo ma solo verificare se c'è un processo negoziale in corso o no. Una cosa molto diversa da quella che vogliono gli israeliani e una parte dell'amministrazione Usa (vedi qui il post di The Cable). Ieri il ministro della Difesa Barak era a Washington per parlare con Mitchell e con il consigliere per la sicurezza nazionale Jones, ma Obama gli ha fatto una sorpresina. Non sappiamo cosa si sono detti, ma il senso è quello della frase ricorrente del telefilm "24": I'm Watching You. Ecco invece la traduzione in italiano dell'intervista a Obama.

2 giugno 2009

L'Egitto e l'addio realistico ai diritti umani

Dopo la Cina - dove in questi giorni è stato il Segretario al Tesoro Geithner - la nuova tappa di un autorevole figura Usa all'estero sarà l'Egitto. Al cairo come a Pechino, difficilmente Obama potrà parlare di diritti umani. Il presidente Mubarak non è esattamente un campione e la giustificazione principale per le violazioni sistematiche è la forza dei Fratelli musulmani, gruppo fondamentalista non terroristico che se si votasse vincerebbe le elezioni a spasso. Il motivo? Corruzione dilagante, disincanto e una rete efficientissima di welfare. Proprio come Hizbullah, Hamas e Moqtada al Sadr in una parte dello sciismo iracheno. A differenza di questi gruppi, però, la fratellanza non è passata alla violenza terroristica (alcune sue frange si). L'Egtto, come tutto il mondo arabo, è insomma un difficile banco di prova: quanto dire sul tema della democrazia? E come? Tra un paio di giorni lo scopriremo. Intanto ecco un bellissimo commento di Alaa al Aswany, intellettuale egiziano di cui in molti avrete letto le interviste sui quotidiani italiani (era alla Fiera del libro di Torino). Aswany parla del paradosso del torturatore egiziano.

Cheney apre ai matrimoni gay......

Sarà perché la figlia è una sostenitrice del riconoscimento delle coppie dello stesso sesso? Oppure si è ammorbidito di colpo? L'uomo dalla tortura facile ha rilasciato un'intervista nella quale apre ai matrimoni gay. Purché, spiega, sia una decisione presa Stato per Stato. Su questo non ci piove, nessun presidente è così pazzo da aprire una crociata sul tema a livello federale. I maligni potrebbero interpretarla così: Cheney spera che molti Stati aprano ai matrimoni così da consentire al Grand Old Party di dare battaglia e risalire la china su un terreno congeniale. ma questa è davvero una malignità.

Obama verso il Cairo. L'intervista a Bbcnews

Ecco il link al video dell'intervista concessa a Justin Webb di Bbc. Il presidente parla di mondo arabo, Iran e altre spine nel fianco.

La prima fine di GM


Non avete letto Liberazione stamane? E' solo perché non lo avete trovato vero? No?
Qui sotto una breve storia della GM redatta da me medesimo.


Nessuno ha voluto comprare il Renaissance centre, il complesso di grattacieli sede della General Motors che domina Detroit dalle sponde del lago Michigan. Il management lo aveva fatto costruire nel 1976 e con la crisi lo ha messo in vendita. Ma chi è così pazzo da comprare un grattacielo nel centro semivuoto di una città morente? Con quel nome poi?

Otto mesi dopo la celebrazione del centenario è finita la prima storia della General Motors, la regina industriale del secolo americano. Obama, i sindacati e i manager che hanno portato il più grande produttore di auto del mondo alla bancarotta assicurano che i passaggi tecnici per gestire la fase del fallimento e del rilancio consentiranno al marchio di ripartire. La verità è che, se tutto andrà come deve, si tratterà di una rinascita dalle ceneri in un mondo diverso da quello in cui il gigante di Detroit è nato. Nemmeno General Motors sarà più quella di una volta. Non perché ha perso quote di mercato rispetto a quando dominava le autostrade degli Stati Uniti, ma perché non sarà mai più vera la frase di Charles Wilson, manager degli anni ’50 divenuto Segretario di Stato, che «Quel che è buono per GM è buono per l’America». Non è e non sarà più così.
E’ finita l’era degli stabilimenti mastodontici di cui restano gli scheletri abbandonati ai lati delle strade del Michigan. E’ finita la storia per cui uno sciopero con occupazione di quaranta giorni nella fabbrica di Flint portava alla nascita e al riconoscimento del sindacato nazionale nel 1937. Per lungo tempo, poi, nessun manager GM si sognerà di far costruire imponenti edifici che diano un segno alla città che li ospita, come il primo quartier generale commissionato nel 1919 ad Albert Khan, l’architetto della Detroit degli anni ruggenti: l’edificio di uffici più grande della Terra. Nei sogni degli americani, degli europei e degli asiatici non ci sarà più nessuna Cadillac Fleetwood special rosa come quella comprata da Elvis Presley nel 1955. Le nuove auto saranno meno appariscenti, più piccole e consumeranno molto meno. Le Cadillac non saranno un segno di distinzione e, soprattutto, le auto della vasta gamma di marchi GM non saranno le uniche o quasi a scivolare sull’asfalto americano. Non lo sono più da tempo.
General Motors venne fondata da William ”Billy” Durant nel 1908 e in pochi anni si era mangiata o aveva creato una serie di concorrenti locali dai nomi che riempiranno la vita e l’immaginario degli americani: Buick, Pontiac, Oldsmobile, Cadillac, Chevrolet. Negli anni ’20 l’espansione tocca il Vecchio continente con l’acquisto di Opel e Vauxhall. La crescita non si ferma mai, tanto che dal 1931 al 2007 la General Motors vende più auto di qualsiasi altro produttore. Nei decenni successivi contribuisce alla nascita della compagnia di autobus Greyhound e al passaggio del trasporto collettivo dalla rotaia alla gomma. Anche i treni, negli Stati Uniti, vanno a Diesel e, guarda un po’, negli anni ’30 GM produceva locomotive non alimentate dall’energia elettrica. Niente e nessuno sorpassa il colosso di Detroit fino al 2008, l’anno di Toyota.
Ma la decadenza viene da lontano, il primo grande colpo è quello della crisi petrolifera degli anni 70. Già allora i giapponesi si presero una quota del mercato interno con le loro scatolette a basso consumo. A Detroit pensarono che il fenomeno era passeggero, che non fosse necessario rivoluzionare tutto. Sbagliavano. Vennero gli anni delle prime chiusure, quelle che portarono lentamente la forza lavoro impiegata da circa 350mila persone alle 266mila di oggi.
Venne il fallimento del primo veicolo elettrico prodotto su scala industriale - l’EV1 degli anni ’90 - e poi venne l’assurda scommessa di puntare su veicoli ad altissimo consumo di benzina. Mettendo tutte le loro fiches sui SUV, forse a Detroit pensavano di tornare ai fasti del passato: belle auto appariscenti che la gente compra per essere qualcuno. Nel 1999 GM compra addirittura Hummer, la casa che produce quelle specie di carriarmati che per qualche anno sono andati di moda tra i più pacchiani dei rappers afroamericani. Una scommessa dal respiro corto. Già prima della crisi dell’anno scorso e del boom del prezzo del petrolio negli ultimi due anni, GM perdeva. L’ultimo bilancio a non essere scritto in rosso è quello del 2004.
Ce ne vorrà di impegno, di qualità, di propaganda nazionale, di star del football, del cinema, della musica e della politica che comprano il nuovo modello, per risalire la china. Per farsi un’idea di quello che è oggi GM negli Stati Uniti, i suoi dipendenti nel Paese sono ancora 66mila e le persone in pensione GM più di mezzo milione. Solo nel devastato Michigan, uno Stato che negli anni d’oro attirava immigrazione afroamericana come fosse una calamita, i pensionati sono 200mila. Decine di migliaia di persone con una storia simile a quella del vecchio Clint Eastwood in “Gran Torino” che assistono incredule da un ventennio alla decadenza e alla scomparsa del mondo che hanno conosciuto, dove si sono amati e hanno ballato la loro musica - la Motown di Detroit è quasi sinonimo di musica black. Per loro saranno anni tristi. Ai giovani non resta che aspettare. Ma Detroit e l’industria dell’auto non saranno mai più gli stessi.

1 giugno 2009

Il progetto Wiki di GM


Ecco il link del progetto wiki di General motors. Divertente no? La storia industriale dell'America rifatta da consumatori, operai, impiegati.

Detroit

Un reportage di Martino Mazzonis dell'autunno scorso, da rileggere con attenzione per ricordarsi che i fallimenti di oggi sono la certificazione di una morte avvenuta già da tempo. La città fantasma dell'auto, dove sono diventati fantasmi anche le colossali aziende automobilistiche simbolo dell'industria americana del secolo scorso. Oggi è stata scritta la storia: un altro passo - di certo non indolore - verso il XXI secolo.

Aborto e matrimoni gay, se culture war rientra dalla finestra

Qui sotto la notizia della morte del medico icona del pro-choice George Tiller. Ucciso, a quanto pare, da una persona isolata. Gli ultimi omicidi di medici abortisti risalivano al 1998, ovvero all'amministrazione Clinton, ovvero all'inizio della lunga crociata che ha dato corpo alla maggioranza di G. W. Bush negli anni 2000. Obama ha tentato in tutti i modi di aggirare, rimandare, disinnescare la battaglia culturale sui temi etici. Il problema per lui è che già quattro Stati hanno approvato i matrimoni tra persone dello stesso sesso e che la scelta di Sotomayor alla Corte suprema ha fatto infuriare diversi crociati antiabortisti (ecco un link a un sito senza immagini di bambini sgozzati presentati come feti, se volete averne una dimostrazione). L'omicidio di Tiller, per quanto commesso da un singolo, è un primo segnale di un clima inquietante che si potrebbe creare. L'arrestato, infatti, è sostenitore attivo dell'omicidio di medici abortisti (ecco un articolo sull'inchiesta). L'America cambia, o almeno così sembra, ma c'è una parte del Paese, magari minoritaria, che non ha nessuna intenzione di cedere su alcune questioni. Obama avrà bisogno di tutta la sua abilità retorica per disinnescare questa bomba. Oppure potrebbe decidere che l'ala conservatrice più dura e pura sia diventata talmente isolata, da lasciarla a infuriarsi per conto proprio. Potrebbe essere un rischio molto grande.
ps: ricordate gli avvocati che duellarono nel 2000 in Florida sul riconteggio delle schede? Oggi vorrebbero portare, assieme, alla Corte Suprema il caso dei matrimini tra persone dello stesso sesso. I gruppi che difendono i diritti son però contrari a che Ted Olson, il conservatore, l'avvocato di Bush in Florida, porti il loro caso davanti ai giudici - c'è un bel film con Kevis Spacey prodotto da Hbo, chi può se lo procuri -

Sulla strada per il Cairo

Giovedì Obama sarà al Cairo (nella foto l'università di al-Azhar) per un discorso che si preannuncia molto importante in cui si rivolgerà non solo ai leader ma anche alle opinioni pubbliche arabe. L'arguto Michael Tomasky sostiene che lì capiremo se Obama è solo un realista oppure anche un liberale internazionalista con accenni neoconservatori. In altre parole, la prova del nove sarà se utilizzerà il discorso per rilanciare la questione della democrazia oppure solo per rilanciare il processo di pace. Speriamo abbia letto questo articolo di Steven Cook, esperto di mondo arabo del Council on Foreign Relations, in cui si dimostra come l'espansione della democrazia comporti la contrazione dei veri aiuti allo sviluppo e quindi crei più danni che benefici. Abbiamo già notato come la visita di giovedì sia strana perlomeno perchè non è prevista una tappa a Tel Aviv o Gerusalemme. I rapporti con Israele non sono più quelli di una volta, ma a perderci sarebbe anche lo stato ebraico: è questa la tesi di Alon Ben-Meir del Center for Global Affairs dell'NYU. I palestinesi (più che altro ciò che rimane di Fatah) invece si spellano le mani per il nuovo presidente: leggete cosa scrive l'ex-ministro Gassan Khatib sul Financial Times. Chi per ora se la gode è Oliver North che registra già il fallimento della strategia del dialogo globale lanciata da Obama. Il ragazzo fu uno dei maggiori organizzatori dell'affare Iran-Contra. Negli anni '90 fondò la Freedom Alliance che in italiano si può tradurre anche "casa delle libertà". E non dite che vi ricorda qualcosa.