2 giugno 2009

La prima fine di GM


Non avete letto Liberazione stamane? E' solo perché non lo avete trovato vero? No?
Qui sotto una breve storia della GM redatta da me medesimo.


Nessuno ha voluto comprare il Renaissance centre, il complesso di grattacieli sede della General Motors che domina Detroit dalle sponde del lago Michigan. Il management lo aveva fatto costruire nel 1976 e con la crisi lo ha messo in vendita. Ma chi è così pazzo da comprare un grattacielo nel centro semivuoto di una città morente? Con quel nome poi?

Otto mesi dopo la celebrazione del centenario è finita la prima storia della General Motors, la regina industriale del secolo americano. Obama, i sindacati e i manager che hanno portato il più grande produttore di auto del mondo alla bancarotta assicurano che i passaggi tecnici per gestire la fase del fallimento e del rilancio consentiranno al marchio di ripartire. La verità è che, se tutto andrà come deve, si tratterà di una rinascita dalle ceneri in un mondo diverso da quello in cui il gigante di Detroit è nato. Nemmeno General Motors sarà più quella di una volta. Non perché ha perso quote di mercato rispetto a quando dominava le autostrade degli Stati Uniti, ma perché non sarà mai più vera la frase di Charles Wilson, manager degli anni ’50 divenuto Segretario di Stato, che «Quel che è buono per GM è buono per l’America». Non è e non sarà più così.
E’ finita l’era degli stabilimenti mastodontici di cui restano gli scheletri abbandonati ai lati delle strade del Michigan. E’ finita la storia per cui uno sciopero con occupazione di quaranta giorni nella fabbrica di Flint portava alla nascita e al riconoscimento del sindacato nazionale nel 1937. Per lungo tempo, poi, nessun manager GM si sognerà di far costruire imponenti edifici che diano un segno alla città che li ospita, come il primo quartier generale commissionato nel 1919 ad Albert Khan, l’architetto della Detroit degli anni ruggenti: l’edificio di uffici più grande della Terra. Nei sogni degli americani, degli europei e degli asiatici non ci sarà più nessuna Cadillac Fleetwood special rosa come quella comprata da Elvis Presley nel 1955. Le nuove auto saranno meno appariscenti, più piccole e consumeranno molto meno. Le Cadillac non saranno un segno di distinzione e, soprattutto, le auto della vasta gamma di marchi GM non saranno le uniche o quasi a scivolare sull’asfalto americano. Non lo sono più da tempo.
General Motors venne fondata da William ”Billy” Durant nel 1908 e in pochi anni si era mangiata o aveva creato una serie di concorrenti locali dai nomi che riempiranno la vita e l’immaginario degli americani: Buick, Pontiac, Oldsmobile, Cadillac, Chevrolet. Negli anni ’20 l’espansione tocca il Vecchio continente con l’acquisto di Opel e Vauxhall. La crescita non si ferma mai, tanto che dal 1931 al 2007 la General Motors vende più auto di qualsiasi altro produttore. Nei decenni successivi contribuisce alla nascita della compagnia di autobus Greyhound e al passaggio del trasporto collettivo dalla rotaia alla gomma. Anche i treni, negli Stati Uniti, vanno a Diesel e, guarda un po’, negli anni ’30 GM produceva locomotive non alimentate dall’energia elettrica. Niente e nessuno sorpassa il colosso di Detroit fino al 2008, l’anno di Toyota.
Ma la decadenza viene da lontano, il primo grande colpo è quello della crisi petrolifera degli anni 70. Già allora i giapponesi si presero una quota del mercato interno con le loro scatolette a basso consumo. A Detroit pensarono che il fenomeno era passeggero, che non fosse necessario rivoluzionare tutto. Sbagliavano. Vennero gli anni delle prime chiusure, quelle che portarono lentamente la forza lavoro impiegata da circa 350mila persone alle 266mila di oggi.
Venne il fallimento del primo veicolo elettrico prodotto su scala industriale - l’EV1 degli anni ’90 - e poi venne l’assurda scommessa di puntare su veicoli ad altissimo consumo di benzina. Mettendo tutte le loro fiches sui SUV, forse a Detroit pensavano di tornare ai fasti del passato: belle auto appariscenti che la gente compra per essere qualcuno. Nel 1999 GM compra addirittura Hummer, la casa che produce quelle specie di carriarmati che per qualche anno sono andati di moda tra i più pacchiani dei rappers afroamericani. Una scommessa dal respiro corto. Già prima della crisi dell’anno scorso e del boom del prezzo del petrolio negli ultimi due anni, GM perdeva. L’ultimo bilancio a non essere scritto in rosso è quello del 2004.
Ce ne vorrà di impegno, di qualità, di propaganda nazionale, di star del football, del cinema, della musica e della politica che comprano il nuovo modello, per risalire la china. Per farsi un’idea di quello che è oggi GM negli Stati Uniti, i suoi dipendenti nel Paese sono ancora 66mila e le persone in pensione GM più di mezzo milione. Solo nel devastato Michigan, uno Stato che negli anni d’oro attirava immigrazione afroamericana come fosse una calamita, i pensionati sono 200mila. Decine di migliaia di persone con una storia simile a quella del vecchio Clint Eastwood in “Gran Torino” che assistono incredule da un ventennio alla decadenza e alla scomparsa del mondo che hanno conosciuto, dove si sono amati e hanno ballato la loro musica - la Motown di Detroit è quasi sinonimo di musica black. Per loro saranno anni tristi. Ai giovani non resta che aspettare. Ma Detroit e l’industria dell’auto non saranno mai più gli stessi.

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