12 novembre 2009

Abbiamo finalmente cambiato casa


Ci abbiamo messo ben più del previsto e non siamo ancora al risultato finale. Ma da un paio di giorni è attivo america2012.it. Da li continueremo a tenere d'occhio come e quanto cambiano gli Stati Uniti e quanto quei cambiamenti toccano noi e il resto del mondo. Nei nostri desideri il sito sarà più ricco di un semplice blog: oltre alla colonna di post rapidi, conterrà i nostri lavori migliori e anche quelli di altri collaboratori. E se ci riusciremo anche degli speciali. Dopo più di mille post, nottate insonni a caricare video e migliaia di visitatori, salutiamo e ringraziamo tutti quelli che ci hanno letto ed hanno commentato il nostro lavoro. Veniteci presto a trovarci!

8 novembre 2009

Approvata la proposta riforma sanitaria alla Camera (primo round). E' davvero un fatto storico? Sì

Una legge onnicomprensiva di riforma del sistema sanitario non arrivava al voto da quasi un secolo. Questo dovrebbe rendere l'idea (anche dell'arretratezza della legislazione sociale degli Usa).

La legge è passata con un margine molto ristretto - 220 a 215 - ma era difficile ipotizzare che i democratici non ce la facessero. 37 dei 52 deputati bluedog democrats (la corrente conservatrice del partito) si è opposta e ha votato con i repubblicani; un membro del GOP - Anh Cao, eletto in Louisiana e primo membro della Camera dei Rappresentanti di origine vietnamita, qui accanto nella foto - ha votato a favore.

Era dagli anni '60 - quando il presidente Johnson aveva allargato la copertura sanitaria per poveri e anziani - che negli Stati Uniti non era in ballo una riforma sociale di questa portata. Come sappiamo il modello non si avvicinerà a quello europeo, ma la proposta approvata dalla Camera (2 mila pagine) prevede la presenza di un fornitore pubblico di polizze assicurative (la public option) e una borsa delle assicurazioni nella quale cercare le più economiche.

Saranno 36 milioni i nuovi "assicurati"; chi non volesse procurarsi una polizza dovrà pagare una multa; si elimina la pratica odiosa delle pre-existing condition; per coprire il costo della riforma (che supera il "trillione") verranno aumentate le tasse ad alcune categorie di super-ricchi ed eliminati alcuni benefit fiscali per le multinazionali. Per ottenere il voto di alcuni democratici conservatori non sono state introdotte alcune misure che avrebbero garantito il ricorso gratuito all'interruzione di gravidanza per alcune fasce di assicurati, facendo così infuriare i democratici liberal.

Ora la pressione sul Senato aumenta, un'istituzione molto diversa da quella della Camera, molto più consensuale e dove conta ancora meno la disciplina di partito. La partita è ancora lunga, ma c'è in gioco l'anima dell'America: più pubblica e più equa. Per i repubblicani è il mondo all'incontrario, dove il governo può tassare il cittadino che non si vuole curare e si finanzia l'espansione del governo federale attraverso le tasse.

Prima la notizia cattiva.. su tasse e finanza

Qualcuno di voi ricorderà la cosiddetta Tobin Tax, una proposta vecchia di quasi 40 anni avanzata dal nobel per l'economia James Tobin: tassare tutte le transazioni finanziarie con un'aliquota non superiore all'1%. In tempi normali, una semplice proposta di buon senso.

Il premier britannico Gordon Brown ha proposto l'istituzione di uno strumento molto simile alla Tobin Tax al G-20 che si è appena tenuto nella sua Scozia (la notizia è ripresa da tutti i quotidiani). Un'inversione a U rispetto al passato recente di Brown e alle posizioni che ha mantenuto nel passato recente da Cancelliere dello Scacchiere. Come tutti i governi in difficoltà, l'obiettivo elettorale è quello di insidiare il nuovo nemico di tutte le opinioni pubbliche, le banche.

Le sue parole sono state populiste come quelle che Obama utilizza quando si parla della finanza e dei finanziari, ma la differenza è nei fatti: Brown, con l'acqua alla gola, si spinge a proporre la Tobin Tax, l'amministrazione Obama (e Tremonti) vi si oppongono. Adesso toccherà al FMI vagliare la praticabilità della proposta, ma il no di Geithner ha già messo un'ipoteca su questa ipotesi, che a questo punto assume un valore tutto britannico e tutto elettorale. Il problema è americano: da dove vuole cominciare a opporsi alle "lobby di Wall Street" il presidente? Dove vuole tassare? E in che modo? La discussione su questo punto sarà lunga e complessa quanto quella sulla riforma sanitaria.

4 novembre 2009

La non sconfitta di Obama ieri e il nostro blog domani

I giornali di oggi (primo anniversario della vittoria di Obama) hanno molte analisi sul perchè della sconfitta elettorale subita dai democratici nella tornata elettorale di ieri con la perdita dei governatori di New Jersey e Virginia, nonchè delle elezioni per il sindaco di New York. Certo non una buona notizia, tanto che il Washington Post oggi dice che "non è più il 2008 per i democratici". Lo spostamento più significativo è quello che riguarda gli elettori "indipendenti" che avevano premiato il partito dell'asinello nel 2006 e nelle ultime elezioni presidenziali e invece in Virginia e in New Jersey si sono spostati in massa verso i repubblicani, anche perchè in disaccordo con l'amministrazione sulla politica sanitaria e sull'eccessiva spesa pubblica. Si trattava però in entrambi i casi di candidati repubblicani "anomali": in Virginia c'era un candidato a suo modo centrista che, come avevamo scritto qui, aveva cercato con successo di sfondare in settori tradizionalmente democratici; in New Jersey il candidato democratico era troppo legato a Wall Street mentre quello repubblicano era un po' il Di Pietro locale, diventato famoso per aver mandato in prigione molti corrotti. Importante anche leggere ciò che viene dall'analisi degli exit poll: chi ha votato ha detto che non lo riteneva un referendum sul presidente; soprattutto in New Jersey il tasso di approvazione per Obama è ancora alto (il 57% di chi ha risposto al sondaggio all'uscita dei seggi); gli elettori sono molto preoccupati per lo stato dell'economia e più sono preoccupati più hanno scelto i repubblicani. Obama però si era molto esposto per il candidato democratico nel New Jersey e non è servito a farlo vincere: chi lo ha votato l'anno scorso non sceglie un cattivo candidato solo perchè glielo dice Barack. Ci sono poi delle buone notizie: i democratici hanno vinto nelle due elezioni suppletive per due deputati dello stato della California e di New York. Soprattutto nel secondo caso i repubblicani avevano scaricato la loro candidata moderata per appoggiare quello del "partito conservatore" molto estremista. E hanno perso un seggio sicuro. Se il partito continuerà la sua deriva estremista non è detto che le elezioni di ieri siano di buon auspicio per il midterm del 2010. Per i democratici ci sono diverse lezioni, un po' hanno a che fare con la timidezza nel realizzare le riforme a Washington come dicono vari analisti al Corriere della Sera. Altre riguardano la capacità di mobilitare costantemente quell'elettorato giovane e delle minoranze che aveva portato Obama alla Casa Bianca. Finora non ci sono riusciti, Organizing for America, il partito del presidente, non è decollato.
A proposito di decolli, tra qualche giorno sarà online la nuova versione del nostro blog, oramai proiettato verso il 2012. Intanto, per chi passa per Roma, ci vediamo venerdì sera alla libreria Flexi in via Clementina,9.

25 ottobre 2009

Imparare dalla Virginia

Il 3 novembre in Virginia si vota. Elezioni importanti perchè lo Stato aveva sempre votato repubblicano nelle elezioni presidenziali degli ultimi 40 anni fino a quando non è stato strappato da Obama. I democratici però già vincevano da un po' le elezioni per il governatore. Da vedere le mappe interattive del Washington Post e paragonarle coi risultati del 2008 contea per contea. Quello che emerge è che lo Stato è cambiato molto negli ultimi anni e che i democratici erano riusciti a sfruttare questi cambiamenti: più giovani, più pagati, più minoranze. Oggi i repubblicani mettono in campo una strategia simile cercando di penetrare tra le minoranze e tra chi vive nella suburbia. Potrebbero proprio farcela. Da qui, dall'analisi di chi si vuole rappresentare, parte la politica vincente. Provate a trovare mappe e strategie così per le regioni italiane.

23 ottobre 2009

Cattive notizie sull'Iran, buone sulla sanità

L'Iran avrebbe bocciato la proposta sul nucleare di cui avevamo parlato mercoledì. Teheran ha fatto una controproposta: invece che far arricchire l'uranio all'estero, l'Iran potrebbe acquistarlo già arricchito dall'estero. Potrebbe solo essere un modo per ritardare il negoziato.
Sulla sanità invece si fa strada l'opzione pubblica, soprattutto alla Camera dove sembra che si sia raggiunto l'accordo sull'opting out: gli Stati che non la vogliono possono rifiutarla. Al Senato invece si ragiona sull'estensione di Medicaid (il programma per i poveri) e la creazione di "borse sanitarie" dove i ceti medio-bassi potrebbero acquistare polizze più convenienti. Il compromesso tra i liberal (che vogliono l'opzione pubblica ad ogni costo) e i moderati democratici (che l'aborrono) sarà complicato.

21 ottobre 2009

Quasi accordo sull'Iran, quasi stallo sul processo di pace

Sul nucleare iraniano sembra che si sia vicini ad un accordo che permetterebbe all'amministrazione Obama di guadagnare tempo prezioso: una parte consistente dell'uranio verrebbe arricchito in Russia ed in Francia. Ci sono dei ma: bisogna vedere se l'Iran accetta e bisogna capire a che velocità verrebbe trasferito il materiale, onde evitare che gli iraniani giochino sporco mandandone un po' all'estero ma rimpiazzandolo subito per costruire una bomba. Sul processo di pace arabo-israeliano le cose vanno a rilento, come era lecito aspettarsi. Gli israeliani dicono che si è vicini ad un accordo ma attenzione: l'accordo sarebbe solo su cosa mettere alla base del negoziato e non sulla direzione dello stesso. Si partirebbe infatti dalle risoluzioni Onu 242 e 338, cioè da Adamo ed Eva. I palestinesi si aspettavano il congelamento degli insediamenti, ma Netanyahu sembra averla avuta vinta. Il problema è che su questo fronte l'amministrazione Obama misura tutta la debolezza americana in questo momento: non può permettersi di forzare la mano più di tanto con i recalcitranti alleati israeliani. C'è poi un'altra mina su questo fronte: la gestione del rapporto Goldstone che accusa gli israeliani di crimini di guerra. Il governo Netanyahu vuole addirittura cambiare le regole e affermare il diritto "all'autodifesa contro gli atti di terrorismo". Più o meno quanto sostenuto per giustificare tutte le passate operazioni militari dello Stato ebraico. Nel frattempo il neocon israeliano Michael Oren, oggi ambasciatore a Washington, snobba la conferenza di J-Street, la nuova lobby pro-Israele ma anche "pro-pace". A chi volesse saperne di più su come vanno le cose nei Territori Occupati suggeriamo la lettura di "Time for Responsibilities", il diario dell'ultima missione dei pacifisti italiani.

13 ottobre 2009

Riforma della Sanità: un passo importante in avanti

La signora qui accanto si chiama Snowe, Olympia Snowe e fa un mestiere importante: è la senatrice del Maine per il partito repubblicano e siede nella commissione finanze. Oggi ha votato insieme ai democratici la riforma della Sanità. La guerra sarà ancora lunga ma forse Obama ha vinto una delle battaglie più importanti.
Ora ci sono alcuni passaggi piuttosto cruciali: la proposta sarà votata dall'assemblea del Senato, dove i liberal cercheranno di inserire di nuovo la norma che crea un piano assicurativo pubblico e nazionale in competizione con le assicurazioni private. Il progetto Baucus (dal nome del presidente della commissione Finanze) non lo prevede: ci sarebbero solo delle cooperative regionali in un sistema in cui le assicurazioni sarebbero obbligate a prendere tutti i clienti (abolendo quindi le clausole sulle "pre-existing conditions") che avrebbero dei sussidi per pagare le polizze. Mentre il Senato approverà il suo testo, anche la Camera farà altrettanto. Ci sarà poi una commissione che preparerà un testo comune da approvare definitivamente nei due rami. La riforma così com'è è molto meno sia di quanto si aspetta una parte dei democratici sia di quanto ci sarebbe realmente bisogno: il rischio che senza opzione pubblica i costi schizzino in alto è reale. Però ci sono due notizie positive: primo, la riforma della Sanità non era mai arrivata tanto avanti nel suo iter parlamentare dal 1912; secondo, il voto della Snowe (se sarà confermato in aula) darà una copertura politica al progetto, dando l'impressione anche ai democratici moderati che c'è un consenso bipartisan. Ora l'amministrazione sembra puntare a far approvare una riforma qualsiasi, purchè sia una riforma. L'importante è mettere in moto il processo, poi magari tra due anni si potrà "riformare la riforma" e introdurre l'opzione pubblica.

9 ottobre 2009

Il Nobel al primo della classe


Ci sono voluti pochi secondi per scatenare il dibattito in rete. Prima sui blog, poi sulle pagine curate dalle firme dei media che contano. L’argomento è più o meno sempre lo stesso: «Il Nobel per la pace a Obama è preventivo», un incoraggiamento dato dai membri del comitato alle belle parole pronunciate qui e la dal presidente democratico. Il discorso de Il Cairo, quello all’Onu, le parole sulla razza. Voli pindarici redatti da un bravo speech-writer e, per adesso, non molto di più.
C’è poi chi parla del secondo premio anti-Bush dopo Al Gore e chi di medaglia ad un presidente Usa per non comportarsi da scriteriato cowboy. In molti, tra gli analisti Usa ci spiegano che il Nobel può essere controproducente per le aspirazioni internazionali della presidenza.
La lista di «se» e «ma» è infinita. Obama è l’uomo dell’Afghanistan, il presidente delle guerre, non ha chiuso la base di Vicenza e non ha fatto abbastanza per l’Honduras dopo il colpo di Stato con il quale il golpista Micheletti ha deposto il presidente eletto Zelaya. E che dire dell’ambiente? E del difficile e non risolto dialogo con l’Iran o della catastrofica situazione in cui versa quello che una volta si chiamava “processo di pace in Medio Oriente”. Su tutti questi temi Obama non ottenuto risultati. E poi si appresta ad aumentare il contingente afghano.
Ciascuno di questi commenti, astiosi o ironici che sia, ha più di un fondamento. I guerrieri - che di guerrieri si trattava - Arafat e Rabin vinsero il premio con Peres dopo aver avviato un processo di pace, mentre Mandela e de Klerk hanno saputo mettere alle spalle decenni di galera e odio razziale. Il premio veniva dato ad una visione accompagnata da risultati. Per spiegare la logica di questo, forse, occorre guardare alla lista degli ultimi premiati - qualcuno ricorda che l’ultimo è stato il diplomatico finlandese Martii Ahtisaari? Alzi la mano chi sa perché. Occorre poi ricordare che a dare il premio sono dei politici norvegesi che hanno vissuto la Guerra fredda e la minaccia nucleare sul confine tra est e ovest, sviluppando una sensibilità speciale in materia, così come sull’ambiente e la cooperazione. Tra gli ultimi premiati ci sono due personalità provenienti da Paesi semi dimenticati - il banchiere dei poveri Yunus e l’ambientalista del Kenya Wangaari Maathai - Al Gore per la campagna sul clima (risultati?), Mohamed El Baradei, presidente dell’Aiea che ha cercato di smussare gli angoli con l’Iraq, prima, e con l’Iran, poi. Si tratta di storie relativamente piccole o di approcci alle grandi questioni planetarie, come il premio all’Ipcc, la commissione Onu sul clima. Queste personalità hanno, in un modo o nell’altro, alzato la voce e lavorato per far prendere coscienza alla società globale delle enormi sfide che la attendono. Obama, che piaccia o meno, è uno di questi. In meno di un anno ha provato a far rientrare lo scontro di civiltà con il mondo islamico, firmato dei trattati nucleari con la Russia, restituito (a parole) un ruolo all’Onu, portato il suo Paese a discutere di emissioni di gas serra. E poi sta accompagnando gli Stati Uniti attraverso una crisi durissima e senza inventare nemici. Il Nobel per la pace è probabilmente esagerato, come esagerate sono le reazioni: Obama non è il miglior presidente possibile, perché un presidente così non esiste.

2 ottobre 2009

Un'apertura sull'Iran?

Ieri incontro fondamentale sull'Iran a Ginevra. Prima di tutto, a latere della riunione ufficiale il sottosegretario Burns ha parlato per ben 45 minuti con Saeed Jalili, il capo-negoziatore iraniano. E' il colloquio più lungo da quando le relazioni diplomatiche tra i due paesi si interruppero a causa del rapimento dei diplomatici americani a Teheran tra il 1979 ed il 1981. Poi ci sono state significative novità nell'incontro ufficiale: primo, il sito di sviluppo nucleare di Qom appena scoperto sarà aperto alle ispezioni dell'AIEA; secondo, si è raggiunto un accordo per rivedersi a breve; terzo, ma non meno importante, sembra che l'Iran abbia accettato di portare in Russia il 90% del suo materiale fissile. In altre parole, l'accordo potrebbe essere che gli occidentali non chiedono più di fermare l'arricchimento dell'Uranio ma questo avviene in maniera controllata (sotto l'egida russa) e per scopi pacifici. Una soluzione discreta per gli Usa che vedrebbero svaporare la minaccia nucleare imminente anche se solo grazie alla cooperazione russa. Obama però incasserebbe il notevole risultato di aver messo sotto controllo un programma che va avanti fin dai tempi dello shah (vedi questa infografica del Financial Times). La linea iraniana, almeno a livello ufficiale, sembra un po' più conciliante di quanto ci si potrebbe aspettare, ecco l'intervista del ministro degli esteri Mottaki a CFR.org. Bisognerà vedere però se è solo uno strumento per guadagnare tempo e arrivare al punto di non ritorno in cui la bomba sarà quasi pronta.

1 ottobre 2009

Chimerica

60 anni di Repubblica Popolare cinese. E chi l'avrebbe mai detto, loro in giro e i sovietici scomparsi da vent'anni. Chi avrebbe mai detto che avrebbero festeggiato i sessant'anni stringendo per il portafoglio l'America? Ieri sul Sole24Ore Mario Margiocco descriveva le ansie americane: i cinesi comprano solo titoli a breve del debito pubblico americano, chiaro sintomo di sfiducia.

Se i cinesi - e i giapponesi - continuassero così non ci sarebbe sufficiente denaro per sostenere il debito che gli americani creeranno nei prossimi anni (per Paul Krugman, gli Usa possono tirare la corda per altri 5-6 mila miliardi di dollari di debito. E a me la banca telefona ogni volta che vado in rosso).

Sul tema vi consigliamo l'acquisto del quaderno speciale di Limes, che vede in Washington e Pechino una coppia di fatto costretta a convivere a causa della crisi (la Cina è ancora assolutamente dipendente dal consumatore americano, quello che però Obama vorrebbe spendesse di meno. E' tutto molto complicato). Il nostro consiglio è interessato: c'è un articolo di uno di noi. Comunque, leggetevi - sempre su Limes - anche l'articolo controcorrente del generale Fabio Mini, che parla di una superpotenza che non sarà mai veramente tale (la Cina) e di un'altra che vive il suo declino: due debolezze che convivono.

La presentazione del numero di Limes la trovate qui: con il direttore Lucio Caracciolo c'è un pezzo di America2008.

30 settembre 2009

Domani a tavola con l'Iran

Domani per la prima volta Usa e Iran si parleranno veramente e ufficialmente. A Ginevra si riuscono i 5 grandi del consiglio di sicurezza, più la Germania e, appunto, gli iraniani. La situazione attuale è un vero rompicapo: la soluzione militare, anche solo da parte israeliana, è impraticabile come spiega Cordesman sul Wall Street Journal; Russia e Cina non aderiranno mai al tipo di sanzioni "invalidanti" che vogliono gli Usa e cioè il boicottaggio nella raffinazione del petrolio e il divieto d'accesso ai mercati finanziari; la leadership attuale non ha molta voglia di aprire un dialogo a tutto campo, nè chi lavora per Obama sembra aver condiviso questa opzione. E' la critica dei coniugi Leverett che condussero a suo tempo le trattative per l'invasione dell'Afghanistan (fu fatta in cooperazione con Teheran): l'amministrazione non ha fatto nulla di concreto per aprire un dialogo simile a quello che Nixon ebbe con la Cina. Bisognava per esempio sospendere i programmi a favore del cambio di regime a Teheran, tuttora finanziati da Washington. Rischia che alla fine i neocon ritornino sulla ribalta semplicemente perchè Ahmadinejad, Kim Jong-il e Chavez sono ancora in giro e i democratici non hanno trovato la maniera per trattarli diversamente.

29 settembre 2009

Germania, Italia, America

Sul blog Italia2013 un nostro appunto sulle elezioni tedesche, dal titolo "In Italia tutti hanno vinto le elezioni tedesche". Riguarda anche l'America, l'unico paese dove è arrivato un leader post-terza via, quindi vincente.

24 settembre 2009

Sono solo simboli, certo, ma il consiglio di sicurezza Onu...

L'unico organo davvero decisionale dimorato al Palazzo di vetro di New York ha adottato una risoluzione che la Bbc chiama storica (alla pagina trovate uno speciale, con diverse cose tra cui i filmati degli interventi di diversi leader): si tratta di un invito generale e generalizzato al disarmo nucleare. Il Consiglio era presieduto da...indovinate un po'? Il presidente Obama. Il passo è solo simbolico, ma che Russia, Cina e Stati Uniti votino per il disarmo è davvero una frattura storica. L'Onu, che è un edificio anni 60, con una gestione e un'organizzazione anni 60, per una volta manda messaggi importanti dalla sua sede decisionale. Normalmente sono le singole agenzie sui temi specifici o l'Assemblea a votare mozioni, non il consiglio.
Possiamo sicuramente sbagliare, ma il fatto che all'Onu sia stata spedita Susan Rice, la consigliera in politica estera più vicina a Obama già durante la campagna elettorale, era già un segnale che l'Onu poteva e doveva, nelle intenzioni del presidente, acquisire maggior centralità specie per quelle grandi sfide planetarie che converrebbe a tutti affrontare assieme: povertà, ambiente, pandemie, disarmo. L'adozione della risoluzione è anche il segno che Rice sta lavorando bene e che con la Russia, sulla questione nucleare, gli Usa stanno facendo un lavoro di prospettiva. Altro argomento, oggi all'Onu sarà divertente: parlano Chavez, Nethanyau, Shakasvili e il presidente iracheno Talabani.

23 settembre 2009

Senato, presto si torna a quota 60

Il Senato del Massachussets ha smentito una sua legge di qualche anno fa, autorizzando il governatore Deval Patrick a nominare il successore di Ted Kennedy. All'epoca della vecchia legge il governatore dello Stato era repubblicano (ricordate il mormone Mitt Romney candidato alle primarie del GOP?) e i democratici temevano in un colpo di mano. Adesso Patrick dovrà scegliere a chi assegnare un posto ambitissimo e un seggio piuttosto sicuro da guadagnare quando tra un anno si voterà nel mezzo termine. L'ultimo nome è Michael Dukakis, già governatore e già candidato presidente sconfitto da Bush sr.
L'importanza della lege risiede nella possibilità, per i democratici, di far passare alcune leggi importanti senza bisogno di nessun voto repubblicano. Il caso della riforma sanitaria è il primo. Certo, prima dovranno mettersi d'accordo tra di loro.

Afghanistan, si cambia?


Il New York Times pubblica un articolo nel quale si segnala la possibilità che gli Usa cambino drasticamente strategia nella guerra afghana. Un cambio c'è già stato nei mesi passati, dopo l'offensiva anti-talebana e la scelta di spostare le truppe verso le zone abitate, per proteggere quelle, anziché incalzare gli studenti di religione nelle loro valli montane. Il generale McCrystal ha anche chiesto più attenzione ai rapporti con i civili (una nuova forma di relazione con la società, che serva a reneder meno odiosa la presenza straniera: la classica ricetta dei contingenti italiani). Oggi però si parla di qualcosa di davvero nuovo. Il Nyt dice sia un'idea di Joe Biden: meno truppe, dedite a dare la caccia ai gruppi legati ad al Qaeda. E che i talebani e l'Afghanistan si fottano. Ovvero, torniamo alla natura originaria della presenza Usa laggiù. Sarebbe molto popolare, negli Usa e altrove, si risparmierebbero molti soldi e vite umane...ma, con la situazione regionale così cambiata dal 2001 ad oggi, possono gli Usa permettersi di non rimanere in quel quadrante della Terra? Sarà interessante vederlo. Comunque non sarà una scelta dei prossimi giorni. Aspettatevi scintille con il Pentagono e i generali. “Maledetti colletti bianchi di Washington", imprecava John Wayne ne "I berretti verdi".

Un vertice (quasi) fallimentare

Ieri Obama, Netanyahu e Abu Mazen si sono incontrati negli Stati Uniti. Vi avevamo parlato in precedenza della possibilità che tra l'assemblea generale dell'Onu e il G-20 di Pittsburgh Obama pronunciasse un discorso "risolutivo" sul processo di pace. Non è stato così e non sarà così a breve. Ecco la sintesi dell'incontro fatta da Ha'aretz: Obama si è mostrato molto nervoso con le parti e ha avvertito che la "finestra di opportunità" si sta chiudendo. Forse però la strategia dell'amministrazione sta semplicemente mostrando la corda (ecco il riassunto di quanto fatto finora). Questa prevedeva da una parte di bloccare la crescita degli insediamenti israeliani e dall'altra di ottenere i primi gesti di riconoscimento da parte del mondo arabo. Obama però, dopo aver vinto le sue elezioni, ha perso alcune di quelle importanti in Medio Oriente: non solo in Iran è andata male ma anche in Israele si è formato un governo molto spostato a destra, il cui primo ministro ha basato la sua carriera politica sul rigetto dello Stato palestinese. Non c'è più il campo della pace israeliano da cui difendersi se si vuole bloccare il processo negoziale. Anzi, come fa notare l'editorialista Akiva Eldar, il quadro politico israeliano è ostile agli accordi: Netanyahu deve guardarsi dal movimento dei coloni e dall'estrema destra che sostiene il suo governo. I palestinesi, dall'altro lato, pagano un decennio di errori: la seconda intifada, la consegna di Marwan Bargouti agli israeliani, la corruzione e l'incapacità di rinnovare Fatah dopo la morte di Arafat e infine il colpo di Stato a Gaza che ha diviso in due i territori. Il cambiamento sta arrivando ora, forse troppo tardi: l'inclusione della nuova guardia nella leadership del partito nazionalista laico, la creazione (con l'aiuto americano) di forze di sicurezza efficienti e un debole progresso economico in Cisgiordania. L'unico lume di speranza in questo quadro è il progetto del primo ministro (della Cisgiordania) Fayyad che mira alla costruzione di strutture statali entro due anni. Chissà che i palestinesi non imparino dagli israeliani la politica dei fatti compiuti.

22 settembre 2009

E venne anche il momento del clima

All'assemblea Onu si discute di questo. La Cina sembra pronta a discutere e l'India a parlare di tagliare le proprie emissioni - pur senza firmare un accordo internazionale. Qui l'ottima e informata cronaca Bbc. Le posizioni, forse, si avvicinano ed è un bene per tutti noi. Nella seconda settimana di dicembre, a Copenhagen si terrà la conferenza mondiale. In questi giorni si discute all'Onu. Qui il discorso di Obama sul clima. Il presidente ha il problema di far approvare una buona legge al Congresso. Un'altra volta. Ma non era un repubblica presidenziale quella Usa? E non era il modello efficiente per eccellenza?

17 settembre 2009

Afghanistan, sei morti e una discussione che non c'è mai stata


La notizia di oggi è che, siccome il nostro esercito occupa un Paese nel quale sul 90% del territorio opera una guerriglia nemica, questa ha fatto sei morti e quattro feriti tra i soldati italiani. E' una bruttissima notizia, come tutte quelle che riguardano le guerre. Da stasera sentiremo parlare di eroi, di assassini, di necessità di rimanere (La Russa) e di necessità di pensarci (Calderoli). Oppure di andarsene senza se e senza ma (la sinistra)....Il Pd non dirà quasi nulla, oppure tutte queste cose assieme.
Quel che nessuno dirà e che nessuno sa è cosa stia capitando in Afghanistan. I nostri giornalisti sono sempre embedded e ci mostrano: a) corse sulle jeep in perlustrazione b) soldati che fraternizzano con gli afghani c) funzionari locali che dicono che siamo tanto bravi. Eppure oggi ci sono sei morti e nessuno, ma proprio nessuno è in grado di dire come uscire, a che punto, perché e con quali risultati. A differenza che negli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, ci si divide urlando, ma non si analizzano le ragioni di un evidente fallimento strategico e politico. Da noi non si è parlato del governo Karzai, dell'oppio, del processo politico ed elettorale in tilt, della riorganizzazione dei talebani, della loro forza nel reclutare anche non fanatici, proprio a causa di una presenza straniera invadente e dell'arroganza diffusa dei funzionari di un governo che appare piuttosto un protettorato. Le soluzioni non sono semplici. Qui un documento semi riservato dell'amministrazione Obama su priorità e strumenti di valutazione della situazione. Le priorità: "disrupting terrorist networks in Afghanistan and especially Pakistan, working to stabilize Pakistan, and working to achieve a host of political and civic goals in Afghanistan." Se noi siamo li per quello sarà giusto parlarne e capire come. Oppure continueremo a rispondere a Washington mandando dieci soldati in più, ma senza farlo sapere all'opinione pubblica. L'Afghanistan non è la Crimea (dove Cavour mandò a morire soldati in cambio di un posto alla conferenza di pace), servono idee, interventi civili e franchezza con l'opinione pubblica italiana che, come rilevavano i Trasatlantic trends 2009 la settimana scorsa, è stufa di una guerra nella quale facciamo finta di non essere.
Quella qui sopra è una mappa dell'Afghanistan, basta scorgerla per capire la situazione. Volete guardare com'è cambiata la situazione? Andate sul sito dell'Internazional council on security & developement a questa pagina.

Via lo scudo antimissile. Addio guerra fredda?

La Casa Bianca ha annunciato che non piazzerà le sue batterie anti missile in Repubblica Ceca e Polonia. La mossa si può interpretare in diversi modi, probabilmente tutti veri. Qui la conferenza stampa al Pentagono.
1. Il capo del Pentagono Gates sta rivedendo l'organizzazione delle forze armate Usa: meno armi fine di mondo, più contronsurrezione. Ecco che, in un anno di ristrettezze economiche, lo scudo perde di interesse.
2. Gli Usa hanno disperato bisogno di Mosca nella partita iraniana e un poco anche in Afghanistan. Dopo aver siglato il patto per la riduzione delle armi nucleari, ecco un nuovo segnale distensivo nei confronti del Cremlino.
3. Tra i due Paesi la tensione è sulla Georgia e Ossezia. Ecco che un inutile scudo ai confini dell'ex blocco sovietico non fa che aumentare la tensione nell'area senza essere utile a nulla (salvo voler tornare alla politica del riarmo in competizione con la Russia, ma non avrebbe senso per varie ragioni). A proposito di Georgia, per capire che il luogo è diventato importante a causa di oleodotti e gasdotti che ci passano, basta guardare i giornali economici. C'è una quantità enorme di pubblicità su i nuovi distretti industriali, i tax breaks, etc.
4. L'Europa, specie quella dell'est, non è più il centor del mondo: perché mettersi a fare a braccio di ferro in un punto inutile del pianeta? A questo proposito: chi sarà davvero scontento saranno i governi polacco e ceco, disperatamente alla ricerca di un protettore anti-russo e incapaci - non del tutto a torto - di scrollarsi di dosso l'idea che Mosca abbia comunque un'attitudine espansia verso le sue ex colonie.
La questione è desitnata a infuocare il dibattito sulla politica estera: i nostalgici della Guerra fredda e i conservatori faranno scintille. Pensate anche a chi è, in campo democratico a gestire la Georgia: il vecchio Biden.

15 settembre 2009

L'occasione che si sta quasi sprecando

Oggi l'inviato di Obama per il Medio Oriente George Mitchell si è incontrato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Come ci spiega Ha'aretz per ora non ci sono passi in avanti: Netanyahu non vuole accettare di congelare gli insediamenti e i palestinesi pongono questa questione come pregiudiziale. L'amministrazione Obama ha ribaltato la situazione di qualche anno fa quando era il mancato riconoscimento di Israele da parte di Hamas ad impedire i colloqui. Perchè, al fondo, la questione è questa: se Netanyahu non vuole fermare le colonie è perchè non crede che uno Stato palestinese possa portare sicurezza ad Israele. Il New York Times oggi ha un editoriale molto chiaro: si sta sprecando una finestra d'opportunità sia da parte israeliana che da parte araba dove nè i sauditi nè gli egiziani fanno pressioni perchè i governi filo-occidentali della regione aprano allo Stato ebraico con gesti simbolici. Sull'Iran, dall'altro lato, Time ci racconta come l'amministrazione potrebbe stare per entrare in un cul-de-sac: minacciando le sanzioni inasprirebbe la reazione iraniana, ma in mancanza di risultati i colloqui a cui Teheran si è dichiarata aperta finirebbero per indebolire l'amministrazione sul fronte interno. Meno male per il presidente che, come ci racconta il New York Times Magazine, la lobby filo-israeliana sta cambiando: un po' meno ideologia e una generazione meno condizionata dall'olocausto forse porterà a scelte meno autolesioniste. Per il momento però, l'ora della verità si avvicina e non sembra una buona verità per l'amministrazione.

14 settembre 2009

Did you say regole per la finanza?

Nel week-end i quotidiani Usa hanno celebrato un anno dal dallimento di Lehman brothers. Il 15 settembre può essere considerato una data simbolica per la crisi 2008-2009 e i media più importanti hanno dedicato parecchio spazio alla ricostruzione delle vicende, sottolineando come, poco fosse cambiato. Dove sono andate a finire le riforme? Allora è vero che a Wall street non cambia niente! Sono stati i commenti di tutti o quasi. Ecco un LA Times, ed ecco tre fantastiche grafiche del New York Times, la prima su dove sono andati i soldi pubblici spesi per salvare le imprese, una sulle proposte di riforma e la terza, la più bella, sulle dimensioni delle banche nel corso di quest'anno (alcune sono scomparse, altre sono quasi uguali ad un anno fa, grazie all'intervento pubblico). Oggi, non proprio a sorpresa, Obama è andato a Wall street a parlare di regole. Il solito bel discorso, niente retorica contoro la cupidigia, ma un appello a Wall street: partecipate anche voi al progetto riformatore, non speculate sull'oggi, perché la prossima volta non interverremo. E poi una serie di proposte chiare sul controllo, la capitalizzazione, la trasparenza verso i consumatori, gli standard internazionali. C'è grande dibattito sul potere della Federal reserve. Non chiedeteci le nostra, per adesso non ne abbiamo una. Qui il testo del discorso, qui il video.

12 settembre 2009

Toh, chi si rivede

Il governatore del New Mexico, Bill Richardson avrebbe dovuto essere tra i pezzi pregiati dell'amministrazione Obama. Poco dopo essere stato nominato, era stato incriminato per un affare di soldi elettorali (o simili). Ieri è stato prosciolto, ma il suo posto a Washington nel frattempo è stato occupato. Richardson è stato tra i primi sostenitori importanti del presidente durante le primarie, è governatore di uno Stato conquistato dai democratici, è un latino ed uno dei migliori diplomatici su piazza. Lo stile è quello Carter, posti difficili, gatte da pelare, conoscenza dei meccanismi di altri posti (è stato ambasciatore all'Onu). Pochi giorni fa l'archivio fotografico Reuters mostrava delle sue foto a La Havana. Ufficialmente un viaggio per promuovere i prodotto agricoli del New Mexico...ma siamo seri. Nella foto, è addirittura con il diavolo in persona. Richardson sta forse lavorando su Cuba e visto che nel suo Stato si vota nel 2010, chissà che non finiscano per trovargli un posto a DC.

10 settembre 2009

Vengono anche loro?

Sabato i nostri affezionati lettori avranno l'ultima possibilità di seguire una presentazione del nostro libro "come cambia l'America". Si va a Como ospiti della manifestazione Parolario. L'appuntamento è alle 17 in piazza Cavour. Da Milano è praticamente ad un tiro di schioppo. Non fate che poi non venite e ve ne pentite.

Commenti americani

La migliore sintesi del discorso obamiano ci sembra, per ora, quella di David Corn su Mother Jones. Se avete poco tempo per andarvi a guardare la stampa Usa, prendetevi questa.

Il quesito finale di Corn è quello che ci poniamo tutti: può un dicorso cambiare il corso di un processo legislativo complesso dove tutti si sono già posizionati dentro le proprie trincee? L'intervento di Obama era diretto all'opinione pubblica (soprattutto a quella più speventata dall'idea di un cambiamento dello status quo) e ai Congressmen; adesso va misurata quanto l'abilità retorica di Obama abbia prodotto in termini di consensi (partirà l'ondata di sondaggi per vedere quanto Obama riesce a spostarne) e quanto, soprattutto, Obama e i suoi uomini sapranno fare nei corridoi del Congresso per persuadere, minacciare, convincere, aggredire.Per vincere, insomma, ben sapendo che il sistema istituzionale americano è una via di mezzo tra Bisanzio e il MedioEvo europeo dei principi e delle gilde. Intanto la Casa Bianca, contemporaneamente al discorso del presidente, ha articolo una sua proposta - ancora piuttosto generica, ma sua - di riforma. In molti chiedevano che il presidente fornisse questo canovaccio. Lo trovate qui.

Cosa ha detto Obama al Congresso

Ecco una breve sintesi del piano descritto da Obama al Congresso ieri sera. Sulla questione più controversa, la creazione di un'assicurazione pubblica che competa con quelle private, il presidente ha detto che si rivolgerebbe solo a chi non è oggi assicurato e che in ogni caso non bisogna essere ideologici: se c'è un altro strumento che può conseguire lo stesso risultato è benvenuto. Ha poi accettato l'idea, che era di John McCain, di creare una "borsa delle assicurazioni" dove individui e imprese possano contrattare delle polizze più convenienti. Il tutto si reggerebbe sull'obbligatorietà dell'assicurazione sanitaria, come da noi per le automobili: chi non se la può permettere però avrebbe uno sgravio fiscale da parte dello stato. Infine una serie di misure che lui ha definito costituiscono l'80% della riforma e che sostanzialmente garantirebbero i cittadini dagli abusi tipici del sistema attuale: l'impossibilità di negare la copertura in base a condizioni pre-esistenti nel paziente; un limite alle spese che i clienti debbono sobbarcarsi da soli anche quando coperti da polizza; l'obbligatorietà della copertura delle cure preventive come la mammografia o la colonscopia. Questo piano, secondo Obama, costerebbe 900 miliardi di dollari in 10 anni: meno delle guerre o dei tagli alle tasse per i ricchi fatti da Bush, come Obama ha fatto notare. Questi soldi verrebbero fondamentalmente da 3 fonti: la riduzione degli sprechi nei programmi medicare e medicaid; la lotta alle cattive pratiche e ai costi legali legati alla professione medica; una tassa sulle pratiche più costose delle assicurazioni private. Per chiudere, un richiamo tipicamente obamiano alle radici storiche americane: la riforma non è "un-american", è anzi nel solco della storia del paese. Prima di tutto perchè è il completamento del disegno del New Deal e della Great Society, tempi nei quali i membri del Congresso "capirono che i pericoli di uno stato troppo invadente corrispondono a quelli di uno stato che lo è troppo poco". In secondo luogo perchè "c'è l'idea in questo paese che il duro lavoro e la responsabilità devono essere ripagati in qualche misura dalla sicurezza e dalla giustizia". La commissione Finanze del Senato, l'unica a non aver ancora concluso i lavori, ha promesso che lo farà entro la prossima settimana.

Non sono il primo a promuovere questa causa, sono determinato a essere l'ultimo


I titoli sembrano essere positivi (anche Politico, che non è esattamente liberal). Obama ha parlato 47 minuti ed è stato interrotto da un deputato republicano della South Carolina che ha gridato you lie. Per come è ridotta lo Stato del Sud, feudo del G.O.P., farebbe bene a stare zitto. Obama ha sfidato il Congresso, spesso incapace di agire, paralizzato dai suoi veti e non popolare tra gli americani. Funzionerà lo stratagemma? Sarà stato capace di convincere la middle class spaventata dalle tasse e gli anziani impauriti dall'idea di perdere la loro copertura sanitaria? Ecco il discorso, più tardi le reazioni.

9 settembre 2009

Un altro fronte difficile: il Medio Oriente

Mentre l'America (e anche un po' il mondo) attende il discorso di stasera sulla riforma sanitaria, è bene fare il punto sulle attività dell'amministrazione sul processo di pace. E' questo uno dei pochi fronti sui quali il presidente può sperare di raggiungere qualche limitato successo che produca poi un sensibile miglioramento della posizione nella regione. Massimo Calabresi su Time ci spiega perchè Obama è così interessato a portare a casa qualche risultato: la minaccia di sanzioni contro l'Iran, nel caso piuttosto probabile che fallisca l'apertura al dialogo proposta dagli Usa, non è credibile se gli arabi filo-occidentali non la sostengono. Ma allo stesso tempo è difficile che questi paesi sostengano la politica americana se questa si dimostra inefficace nel bloccare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, una vera ipoteca contro qualsiasi speranza di nascita di uno Stato palestinese. Il quotidiano conservatore Jerusalem Post la vede in un'altra maniera: Obama si è alienato le simpatie del mainstream israeliano con la sua campagna contro gli insediamenti con il risultato che ora il ministro laburista (ma piuttosto guerrafondaio) Ehud Barak ha approvato una nuova ondata di costruzioni. Il fatto è, però, che l'asse si è veramente spostato negli Stati Uniti. Basta vedere l'editoriale di oggi del New York Times: un imprenditore palestinese spiega come la politica dei posti blocco israeliana abbia fermato lo sviluppo palestinese e che, nonostante quest'anno il PIL sia cresciuto del 7% (ritmi cinesi o indiani) è solo un rimbalzo momentaneo rispetto al meno 34% registrato dal 2000 in poi. Insomma, conclude l'editorialista-imprenditore, non esiste l'alternativa tra sviluppo economico e processo di pace. E' proprio per questo che sarà cruciale l'iniziativa americana che verrà pubblicizzata o durante il G-20 di Pittsburgh oppure all'assemblea dell'Onu: dalla velocità con cui procederà il processo di pace dipenderà in parte il negoziato con l'Iran e, a cascata, le possibilità di successo americano in Afpak.

Provaci ancora Barack

Non è la prima volta che Barack Obama prova a riformare la sanità. Era il 2004 (pensate, solo 5 anni fa) e l'attuale presidente era solo un senatore dello stato dell'Illinois, dove tra l'altro è ambientato ER. Il Washington Post ci racconta oggi con un lungo articolo come andò allora: Obama mise su una coalizione molto ampia come si fa spesso in America. L'obiettivo iniziale era un sistema quasi all'Europea in cui tutti sarebbero stati coperti. I costi piuttosto elevati e le forti resistenze delle assicurazioni furono da subito un problema che Obama cercò di risolvere con una trattativa. Trattò così a lungo e così approfonditamente che la legge che fu approvata non istituiva nessun nuovo sistema ma solo una commissione che avrebbe studiato il problema. Questa stilò un rapporto in cui consigliava di rendere obbligatoria l'assicurazione (come da noi per le auto) ma di fornire sussidi a chi non poteva permettersela. Nessuna assicurazione pubblica insomma e d'altronde Obama aveva accettato che nella commissione fossero presenti anche i rappresentanti di quelle private. Inutile dire che quel sistema non è mai entrato in vigore in Illinois anche a causa dei rovesci giudiziari che colpirono il governatore Blagojevich. Una storia da tenere a mente in vista del discorso che il presidente farà stasera sulla sanità.

8 settembre 2009

Un nuovo alleato sulla riforma sanitaria

Ecco il testo dell'intervista concessa da Bill Clinton a Esquire nella quale l'ex presidente difende la public option, sostiene che Obama sta facendo bene e che i democratici devono scaricare i repubblicani e tirare diritti per ottenere una riforma qualsiasi senza preoccuparsi troppo del budget. Su questo, ma ho perso il link, sul New York Times di domenica Robert Reich, ex segretario al lavoro di Bill e oggi professore di economia a Berkeley, recensiva un libro di storia della riforma sanitaria nel quale si spiega che nessun presidente ha mai tenuto conto del fattore risorse. Prima si fa la legge che cambia la società nel profondo, poi si pensa ai soldi.

Obama, la sanità, gli anziani e il voto del 2010

Se cercate una spiegazione all’impasse politico che ha attanagliato l’amministrazione Obama per tutta l’estate, guardate i sondaggi per il governatore della Virginia. O per i posti in Congresso del Nevada e negli altri Stati tradizionalmente repubblicani o moderati che il presidente ha portato ai democratici nel novembre del 2008. Senza che i repubblicani abbiano fatto nulla per guadagnare terreno, il pendolo punta dalla parte del partito dell’elefante. Un fatto fisiologico dopo una vittoria tanto grande come quella di Obama, ma andatelo a spiegare ai senatori e rappresentanti che se sbaglieranno voto sulla riforma sanitaria rischiano di restare a casa. Per carità, non è tutta qui la difficoltà del re degli oratori, ma l’agenda politica di ciascun presidente non può fare a meno di giocare le partite più difficili nei momenti in cui si è abbastanza lontani dalle elezioni. E in questa estate del 2009, le lancette dell’orologio si avvicinano in maniera pericolosa alla distanza simbolica di un anno dal voto di mezzo termine (novembre 2010).
E’ per questo che il presidente aveva marcato stretto la leadership parlamentare del suo partito perché approvasse la riforma sanitaria prima dell’estate ed è per questo che domani si presenterà davanti ad una sessione bicamerale del Congresso per parlare della legge più difficile da far approvare al Congresso degli Stati Uniti d’America. (per continuare clicca qui)

Ritorno ai comizi, stavolta per la riforma

Domani Obama parlerà al Congresso riunito in sessione bicamerale. Ieri però è andato a fare un comizio in Ohio (qui il video e qui una sintesi e l'articolo di Politico) ove ha insistito molto sulla crisi e le misure approvate (era il Labour day) e sulla riforma sanitaria. Il presidente ha fatto molta retorica anti poteri forti e repubblicani e ribadito la sua preferenza per la public option. Ma senza andare a fondo e lasciarci capire esattamente cosa dirà a rappresentanti e senatori. Obama parla a una platea sindacale e sembra un campione liberal. La domanda è: che strategia sta giocando? Potrebbe cercare di infiammare la platea e poi far passare un copromesso, oppure forzare. Il Nyt ci racconta che c'è un testo redatto dal senatore Baucus (Montana, democratico) che contiene alcune cose importanti ma dove la public option è assente. Aspettiamo e vedremo.

7 settembre 2009

In Afghanistan non squillano i telefoni

Ricordate questo spot di Hillary Clinton durante la campagna per le primarie? Un telefono squillava alle 3 del mattino e doveva esserci un presidente pronto a prendere le decisioni difficili, Hillary era in grado, Barack no. Ora lui fa il presidente e lei la Segretaria di stato ma il problema è un altro: come scrive giustamente lo storico Andrew Bacevich sul Los Angeles Times, la questione non sono le crisi improvvise ma quelle che, come l'Afghanistan, peggiorano lentamente di giorno in giorno senza che la presidenza sappia farci granchè. Bacevich propone realisticamente di cominciare ponendosi una domanda diversa dal classico "come vinciamo" e cioè: quali alternative abbiamo alla guerra per perseguire i nostri limitati interessi nazionali in questo paese? Intanto, continuano i conteggi elettorali e si trasformano in una triste gag: come segnala il New York Times, ci sarebbero molte urne finte in giro per il Paese piene di voti per Karzai. Certo se l'attuale presidente vincesse leverebbe parecchie castagne dal fuoco agli americani e a noi.

6 settembre 2009

Anche i lobbisti piangono


La crisi colpisce anche il settore delle lobby, che nel 2008 aveva assorbito ben 3,3 miliardi di dollari, più del doppio del decennio precedente. Sono soldi che pesano e hanno pesato sempre di più, quando si analizza la politica americana bisognerebbe ricordarsene più spesso. La (buona) notizia che ci da oggi il Washington Post è che per la prima volta i soldi spesi per fare lobby sono diminuiti del 10% e che ci sono più di 2mila lobbisti in meno a Washington - non bisogna dimenticare che è un lavoro legale, per il quale ci si registra. Un po' è la crisi ma un po' è che semplicemente sta cambiando la natura del lobbying: si fanno più spot in tv, si creano più campagne "dal basso" e tutto ciò non viene registrato dall'ufficio del Congresso che aiuta a compilare i grafici che vedete sopra. Per esempio 75 milioni di dollari sono stati spesi finora in pubblicità televisiva solo sul tema della sanità. E poi alcune società non ci sono più (la Lehman) o altre sono parzialmente sotto controllo governativo come quelle del settore automobilistico oppure assicurativo. La parte del leone, nonostante il calo, la fa ancora il settore sanitario dove si spendono comunque più di 200 milioni in un solo trimestre.

Crisi e G20: un po' di dibattito economico


Non siamo stati troppo attivi questa settimana e ci sarebbero molte cose da dire. Essendo domenica, partiamo da lontano. Il G20 di Pittsburgh si avvicina e ieri si è riunito il vertice dei ministri finanziari. In fondo siamo ancora in piena crisi e, nonostante i segnali positivi degli indicatori classici, la gente vive ancora molto peggio di due anni fa. Al G20 si discuteva del come affrontare il futuro prossimo e dotare il mondo di sistemi che riducano l'effetto delle crisi e/o impediscano alla finanza di esagerare nel rischiare i soldi dei risparmiatori. Le divisioni sono diverse, ma sembra che per adesso sia passata la linea Geithner: più regole per le banche, necessità di tenere più soldi in cassaforte (quanto presti/investi rispetto a quanto davvero hai in cassa?). L'Europa vuole regole per i bonus e qualcosa otterrà. India, Cina e Brasile vogliono pesare di più in Fmi e Bm. Anche per loro andrà bene.
Tornando a parlare di crisi e ad un anno dalla fase di panico (Lehman falliva il 15 settembre) ecco l'ampio articolo di Paul Krugman desitinato a far discutere. Perché gli economisti non ci hanno capito niente? E' una domanda su cui ha scritto a lungo Martin Wolf del Financial Times, convinto che la crisi sia peggio di come ci si racconta. Krugman coglie l'occasione per criticare una scienza economica fatta di modelli e incapace di guardare a quanto succede intorno. Il duello è vecchio: Chicago boys contro Keynes, con il pendolo che la crisi ha fatto oscillare verso Keynes. Anche l'Economist ha dedicato due ampi articoli teorici al tema (qui il link al primo, al secondo, sulla finanza, ci si arriva da li) . Roba un po' difficile ma di grande interesse. Qua un mio ben più mediocre articolo che riassume cose dette dagli economisti a Cernobbio e altrove. Quest'anno più critici del monetarismo che in passato gli ospiti.

3 settembre 2009

Un PD che vince (e i problemi per Obama)

11 anni fa alcuni fuorisciti dal Partito LiberalDemocratico (LDP, centrodestra, al governo per 55 anni) si unirono ad alcuni ammiratori nipponici del nostro Ulivo per fondare il Partito Democratico del Giappone. Poco a che vedere con il nostro PD, tanto che la stampa informata definisce il DPJ come un partito centrista e basta.
Uno dei migliori conoscitori italiani del Giappone, Francesco Sisci, spiega le implicazioni interne ed internazionali di questo cambio di governo a Tokyo: mentre sul fronte interno si tratterà di scrivere un nuovo patto sociale (anche il Giappone, tra l'altro, è afflitto dal precariato su larga scala), su quello esterno si tratta di venire a patti con il nuovo ruolo della Cina su scala asiatica. Il nuovo governo di Tokyo punta quindi a ricostruire una dimensione continentale e a fare da ponte tra Obama e la Repubblica Popolare. Per ora ci si muove con poca esperienza, basta leggere la cronaca dei primi atti di politica estera di Hatoyama, il futuro premier. In discussione il rapporto con gli Usa ma, in prospettiva, un Giappone di nuovo dotato di un progetto non farebbe che comodo all'amministrazione. E poi dei democratici che vincono non si trovano mica dappertutto: se ci vogliono 11 anni dalla fondazione vuol dire che il PD italiano può farcela nel 2018.

1 settembre 2009

Quante truppe per kabul...seri dubbi alla Casa Bianca

Ieri il generale mcChrystal, comandante a kabul, ha prodotto un rapporto che individua alcuni problemi, modifica le priorità e consiglia un nuovo atteggiamento alle truppe che lui stesso comanda. Molte cose sensate (più aiuti, meno bombardamenti, più vicinanza con la popolazione) e un vuoto. Il generale non chiede più truppe. Oggi scopriamo il perché, alla Casa Bianca speravano che il consenso sulla guerra afghana sarebbe rimasto inalterato, ma stanno scoprendo che le cose non filano liscie. Che fare? Evitare di prendere impegni. Ieri il conservatore George Will, sul Washington Post chiedeva di lasciare il Paese, continuare a bombardare e a mandare truppe speciali e spie al confine. Il modo perfatto per nutrire al Qaeda e riperdere l'Afghanistan. Gli risponde Bill Kristol, stessa parrocchia, dicendo No way.
Il problema sembra essere aperto anche alla Casa Bianca. Ecco una parte del nio articolo di domani su Liberazione, le notizie interessanti vengono da qua.
La pressione per la riforma sanitaria e il calo dei consensi, e la percezione che la guerra afghana (o la lotta al terrorismo) non siamo più nella testa degli americani, rende più pesante l’aria anche alla Casa Bianca. Il vicepresidente Biden, che è una vecchia volpe di Washington, sarebbe preoccupatissimo. Alcuni alti funzionari a lui vicini, parlando anonimamente con una reporter della <+Cors>McClatchy <+Tondo>- compagnia che pubblica diversi giornali negli Usa - hanno spiegato che alla Casa Bianca «credevano che avrebbero avuto un ampio sostegno popolare» e che il vicepresidente sia convinto che senza quello, non ci si può impegnare per altri soldati per un periodo non definito e sicuramente lungo. Il fatto che nei rapporti consegnati l’altroieri dal comandante in Afghanistan McChrystal non ci fosse la richiesta di un aumento di truppe è il frutto di una richiesta della Casa Bianca. L’invio precedente di truppe, collegato alle elezioni, era stato più facile da far digerire, era collegato ad una scadenza. Ma adesso? Dall’amministrazione fanno sapere che nei prossimi giorni partirà un processo di revisione della situazione che coinvolgerà tutte le figure chiave della politica estera e militare Usa. Poi Obama dovrà prendere delle decisioni. Difficili.

31 agosto 2009

McCain, Cheney e la tortura

Dick Cheney, che sta cercando di approfittare dello scontro Cia, Dipartimento di Giustizia sugli interrogatori dei terroristi, è tornato domenica a difendere le scelte dell'amministrazione Bush. Questo il video in cui il senatore repubblicano mette a tacere l'ex vicepresidente sulla tortura e il ruolo che questa ha avuto negli anni di Bush.

28 agosto 2009

Che fine hanno fatto i conservatori?

Aspettano e pregano perché la riforma sanitaria finisca sugli scogli. Ecco una bella intervista (in italiano, quando ci sono cose, vale la pena segnalarle) al direttore della New York Review of Books, Sam Tanenhaus, che ha appena scritto The death of american conservatism, comparsa oggi su Europa a firma Marilisa Palumbo e Guido Moltedo.

L'America di John Steinbeck, revisited


"The Grapes of Wrath" ("Furore", in Italia) è il grande romanzo affresco con il quale John Steinbeck raccontò la Grande Depressione nel 1939. Chris McGreal del Guardian ha ripercorso il viaggio della famiglia Joad, in fuga dalla crisi verso la California attraverso la Route 66.

Si parte da Tulsa, Oklahoma. McGreal comincia il suo viaggio da una clinica, sponsorizzata dalla chiesa battista locale: l'ospedale cura chi non ha assicurazione sanitaria. Nel link trovate l'articolo, il primo video della serie, e le foto. Bella idea.